E poi...



E poi...
 
 
 

E poi ripetei quella parola
Fra me. Senza un’intonazione.
Quella parola,  distesa. Completamente neutra.
Da sempre estranea a me come una nube.
Chiudeva un ciclo. Un’età. Chiudeva un tempo.
 

Mi congedavo dalle tue insicurezze
Quel così tuo, non saper volere.
Precipitavano, fitte come perle di collana
immagini, giornate, fotografie e parole.
Pioggia tiepida colava,  di fitte acute
dolorosa e vana  là dove doveva battere il cuore..

Urlavano i venti sul mare.

Fissavo il sole che stravolto
regalava ancora qualche bagliore al buio
prima di sprofondare all’orizzonte.
Prendevo congedo da cento contraddizioni
che avevo accettato pur di renderti onore.
 

Accartocciavo pensieri di te.
Infedeli ritratti che per tanto m’avevano accompagnato
Si chiudeva un’era come una giornata. Ero libero.
La malattia di te m’aveva lasciato
Pelle trasparente e febbrile. Bruciature e ferite
Infinite cicatrici ricucite come sgualcite cartine inservibili.
Mentre l’idea di te infine, 
mi lasciava libero di incamminarmi.
E me ne andai.
Là, dove pure non v’erano più treni da prendere
o navi per salpare.
Finalmente ti leggevo
e leggero
come un vuoto pieno d’eco
m’allontanavo lento, a piedi, non più cieco
sul ciglio di me sgomento.
Per la prima volta sapevo.
Il tuo limite svelato doleva ancora e ancora, infinitamente.
Ma non mi voltai quando, al termine del ponte
l’altra sponda prese il colore del tuo tramonto.
 
 

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