CRONACA  DI  UNA  FORMAZIONE




















   
   
   




























































     
     
 

 "Mia nonna Marianna stava male, sempre più gravata da­gli anni, e mio padre voleva almeno avvicinarsi a Lenola per poter accorrere in caso di bisogno. Perciò da Santa Maria chiese il trasferimento al comune di Formia, che era a breve distanza dal paese natio.



Di quella città ho come una memoria doppia: incanto e accidia. Feci il mio ingresso al liceo, che si intitolava a Vi­truvio, ed era alloggiato al piano di sopra dell’edificio in cui aveva trovato abitazione mio padre. Era una condizione fe­lice per i miei lunghi sonni. Bastavano pochi secondi per traversare la breve scala e trovarmi in classe. E però quella prossimità rendeva più difficile fare sega. Al Vitruvio c’era un preside zelante, conosceva mio padre, e se scopriva la mia assenza la delazione alla mia famiglia era questione di un at­timo.

    
Gli inverni erano dolci, la marina di Formia dalla punta turrita di Gaeta approdava al promontorio di Gianola, che pareva un’isola breve, sepolta nella macchia di ginepro, e un fianco affacciato su un fiume. Dal mare tiepido risalire la fo­ce di quel gelido torrente dava delizia. Quando a dicembre calava intatta la tramontana, tutto - terra e marina-  diven­tava di smalto.


In un certo senso le ore di scuola finivano abbastanza pre­sto. Dopo l’aula, trascinavamo i pomeriggi a gironzolare tra gli agrumeti densi che portavano a Scauri: sempre a parlare di ragazze o di pallone, o abbandonati alle canzoni grasse da bordello (ce n’era uno a un passo, a Gaeta, che fungeva da luo­go di iniziazione). Quando avevamo qualche spicciolo, fini­vamo in un caffè col biliardo o accucciati nel cinema.


 


Presto però vennero bufere che cancellavano ogni illusio­ne di idillio, e non erano solo i turbamenti della pubertà. Ero mutato nel corpo e vivevo tutti i piaceri e i patimenti della sessualità che esplodeva: dagli sguardi cupidi alla ricerca fu­riosa dei toccamenti con l’altro sesso. E tutto vissuto senza alcun lume dai maggiori. E i coetanei vivevano la stessa an­sia morbosa.[…]



Ma altri turbini si agitavano intorno a noi. Non mi pare che in casa fosse nominata con il proprio nome la grande cri­si del ‘29, che squassava il mondo. Però le conseguenze sul­l’esile, vetusta economia agraria dei miei luoghi erano fune­ste: non tanto sulla rete delle imprese industriali che era gra­cilissima (in tutta la fascia da Gaeta alle soglie di Napoli, che io ricordi, c’erano solo due fabbriche di qualche consistenza: la vetreria di Gaeta e il pastificio Paone a Formia; poi già più lontano c’era il nucleo industriale della Valle del Liri).


Da quelle mie parti la crisi scoppiata nella florida Ame­rica si ripercuoteva nei modi più elementari. Prima di tutto calava vertiginosamente il ruscello di denaro che veniva dal gruppo di emigranti: e a Lenola vi furono rientri penosi. So­prattutto dilagò la disoccupazione: lo potevo vedere dalla fi­la di uomini e famiglie disperate che bussavano alla mia ca­sa per invocare ansiosamente un impiego a Roma: fosse un portierato, o un posto da usciere in un ministero, o da por­tantino in ospedale, o qualunque altra cosa; tutti rivolti a mio padre: non solo in nome di quella garanzia di tutela che correva non detta fra signori e contadini, ma soprattut­to perché mio padre era già nella macchina pubblica, che in quei tempi di aspra, nuova fame appariva un nido di «po­sti». Mia madre a quelle dolenti domande rispondeva sem­pre di : assicurando che certamente si sarebbe trovata una strada. .[…]
     Q
uel terremoto mondiale coincise per me con l’ingresso nel liceo che compivo con una certa baldanza. Non avevo paura della prova nell’apprendere. E però non ricordo che da quella cattedra mi venissero lumi sul presente turbinoso che scuoteva il mondo.


Il Vitruvio era chiaramente un liceo di classe. Contadini e operai ne erano naturalmente esclusi: se volevano prende­re quella che veniva chiamata «laurea» dovevano andare in seminario e farsi preti. Altrimenti c’erano solo spiragli per la scuola chiamata «tecnica»: come a segnare seccamente un li­vello parziale e inferiore di sapere. Allora, da quelle mie par­ti, la tecnica non era ancora salita sul trono: il mondo delle macchine moderne, in Italia, per molti versi era ancora cir­coscritto.


 


Non so dire se ero consapevole di quel mio privilegio ne­gli studi. [...] Ciò che apprendevo in quelle aule del Vitruvio era prima di tutto una enorme ricapitolazione o riassunto dell’accadu­to umano in quella conca mediterranea in cui stavano Atene e Roma: e tutto ciò che aveva ruotato intorno a quei due fati. Mille e più anni erano quasi impossibili da raccontare. [...]



La Divina Commedia era il Libro, l’Icona che si studiava per tutto il liceo, e si saldava con quella lunga ricostruzione del millennio che finiva irragionevolmente con la breccia di Porta Pia, oltre la quale stava solo Carducci, con un enorme e assurdo buco sul Novecento: il secolo drammatico e poli­morfo in cui venivamo crescendo.


Le materie scientifiche almeno in quel liceo formiano non avevano connotato fondativo: salvo la matematica che però era presentata come specialismo, mai come sapere co­stituente. E difatti io che di matematica sapevo quasi nul­la o più esattamente non afferravo il senso, la sostanza del­l’operazione umana che in essa si realizzava ero tuttavia, e facilmente il primo della classe.



La questione più aspra era nel fatto che quei saperi resta­vano «materie»: anche nell’agire dell’insegnante. Difatti quei maestri tenevano lezione rigidamente (e naturalmente...) l’u­no separato dall’altro. Mai tenevano una lezione comune; quasi mai si incontravano per discutere e delucidare insie­me con gli alunni un punto chiave della riflessione educa­tiva. O anche per vagliare o prospettare insieme, e con gli alunni, una controversia interpretativa, un progetto di ri­cerca. Insomma non stimolavano mai un cercare collettivo.


Eppure la gara dell’apprendere esercitava su di me una lu­singa: con l’astuzia della domanda, ci metteva per qualche momento sul palcoscenico; ci chiamava a sortire da noi, ad assumere la responsabilità di un dire pubblico. Ma questo esi­geva un dubitare, e che il maestro avesse lui un dubbio, e anch’egli chiedesse, cercasse una risposta, se mai per verificar­la con gli allievi. E in quella scuola quasi mai, o mai, era così.


Paradossalmente per me, alla fine le materie più semplici erano quelle che riguardavano le scienze esatte, dove mi sem­brava chiaro che i maestri domandavano solo un esercizio mnemonico, é quasi nulla quanto all’indagare, allo scoprire.


Da ciò veniva una insoddisfazione che via via mi spinge­va a tastare, a frugare fuori dalle aule del Vitruvio. Con de­solazione seppi che a Formia non c’era una biblioteca pub­blica. Poi, quasi per caso, venne per me la scoperta clamorosa dei media. Prima di tutto, la nuova rete dei giornali quoti­diani.


 


Mio padre spesso comprava il giornale, e mio fratello ed io, a volte, scorrevamo le pagine sportive. Poi mi capitò di scoprire il mucchio di giornali quotidiani posto regolarmen­te sul bancone di un negozio del corso, dove c’era una com­messa bellina e compiacente. E scorrendo quasi di frodo quei fogli incontrai quella che allora veniva chiamata la «terza pa­gina», e il posto che là aveva il dibattito culturale.


Era una pagina dove il regime allentava abbastanza le bri­glie: anche i letterati fedeli al fascismo là si concedevano qual­che licenza nel dibattere; e gli eretici sondavano uno spazio di dialogo: soprattutto allargavano il discorso alle grandi cor­renti culturali del Novecento europeo.



A me più di tutto piaceva la poesia. Appresi a inoltrarmi nelle correnti di pensiero e del gusto che estenuavano il cro­cianesimo o lo scavalcavano: e mi incuriosiva la rivoluzione avvenuta nella poesia del Novecento: forse colpito dalla rot­tura nell’incontro delle cadenze e dal dubbio sull’umano che segnavano il passaggio di secolo. A poco a poco imparai a distinguere tra il paludato «Cor­riere della Sera» e la bizzarra « Gazzetta del Popolo», diret­ta a Torino da un fascista strano, Ermanno Amicucci: là, ogni giovedì c’era una terza pagina che coglieva il meglio della ri­cerca letteraria maturata in Italia dopo l’impallidire dei gran­di astri, Pascoli e D’Annunzio.[...]


Là incontravo Ungaretti e Montale che mi accendevano nella loro amara diversità, Saba che mi piaceva meno, e i li­rici di nuova schiera: da Quasimodo (il primo Quasimodo) a Betocchi sino a Sandro Penna. Cardarelli mi sembrava un cauto retore, seppure a Roma teneva ancora banco nella saletta di Aragno.




   Passando per quelle letture venni operando le prime clas­sificazioni, e scoprendo perché la poesia mi attirava più del­la prosa: salvo Svevo, quel triestino amico di Joyce, e Tozzi e poi Bilenchi, ambedue cosi agri e segnati dalle ferme pla­nimetrie della campagna toscana.


Fu un inizio. Vidi, più tardi, che alla stazione di Formia giungeva «L’Italia letteraria». Lo compravo puntigliosamen­te ogni venerdì. Su quel foglio incontravo la costellazione raccolta attorno ad Alfredo Gargiulo, il critico che forzava l’estetica crociana nel culto della «prosa d’arte» e incensava prima di tutto le rattratte cadenze poetiche del primo Unga­retti.


Agiva su di me, ormai, un’altra cattedra; e mi parlava del mio secolo, prima di tutto della grande guerra che l’aveva av­viato. Incontravo i testi turbati degli ex vociani che erano fi­niti in trincea: da Jahier con il suo eticismo ai triestini, ai fra- telli Stuparich e a Slataper, e sino -a quel libro ambiguo che allora stava sugli altari, Esame di coscienza di un letterato di Renato Serra che parlava di una crisi piuttosto che di un ini­zio. Come s’allontanavano la breccia di Porta Pia e Carduc­ci, avanzava per me la letteratura del malessere, che non si combinava al fascismo, anche se stranamente il primo libro di versi di Ungaretti, Il porto sepolto, aveva avuto una prefa­zione di Benito Mussolini. [...] In ogni modo, tutta una letteratura della crisi di cui i libri posti sul banco di scuola non dicevano pa­rola: il panorama di un esperire frantumato è di dubbio co­cente, un mondo che strideva con i gagliardetti delle aduna­te a cui partecipavo in divisa e le chiassate, le canzoni scurrili, i racconti «sporchi» con cui cercavamo di animare i pomeriggi vuoti e le passeggiate banali per il corso di Formia e il suo giardino pubblico sporgente sul mare.


In quel frugare nella letteratura del mio tempo, scoprii an­che le riviste esemplari di quel Novecento italiano letterario. Non avevo quattrini, e imparai a farmi mandare copie in omaggio da quegli editori soprattutto fiorentini. I libri mi giungevano fermo posta: se fossero arrivati a casa, mio pa­dre avrebbe chiesto e messo l’occhio in passioni che allora erano solo mie e che sarebbero apparse bizzarre. E io già sem­bravo un po’ strano: bravissimo a scuola, ma con la testa a volte sulla luna.


Quale fu l’anno in cui quell’ignoto (per me) editore tori­nese, Frassinelli dietro cui stava tutto il gruppo degli intel­lettuali antifascisti e liberaldemocratici, da Augusto Monti a Massimo Mila, a Franco Antonicelli, a Leone Ginzburg —, pubblicò il Dedalus che mi avviò a conoscere la nuova lingua di Joyce e Moby Dick di Melville tradotto da Pavese o anco­ra Il messaggio dell’imperatore, quel primo testo (per me) di Kafka


Li comprai a Roma già all’università, o abitavo an­cora a Formia? So che Melville e Kafka mi avrebbero in­cantato e sconvolto.[…]


Che cercavo in quei testi allora quasi da iniziati? Che co­sa non mi garbava del mio tempo? Ora lo direi così: non mi convinceva una lettura troppo secca e univoca del soggetto umano. E questo non nasceva da una ribellione al fascismo, che invece venne più tardi. Mi sembrava di incontrare, nel­la società delle mie parti e nella cultura consacrata, semplifi­cazioni sommarie e anche grossolane. Non capivo le sicurez­ze orgogliose di cui, intorno a me, erano densi anche le pas­sioni e i tribunali della vita quotidiana. Afferravo che alle spalle di quella mia gioventù c’era sta­ta una rivoluzione della cultura europea: un dramma e uno scontro avvenuti prima di me: E avvertivo in qualche modo la grandezza della catastrofe vissuta.
Leopardi lo scoprii più avanti nel tempo, e lo amai al di sopra di tutto. 
[…]



       In quel li­ceo formiano conobbi i primi germi di una eresia politica. E la prima critica al regime Mi venne da maestri giovanissimi, quasi della mia stessa generazione.


Insegnò al Vitruvio per una breve supplenza un giovane da poco laureato: Pilo Albertelli. Si vedeva platealmente che era nuovo alla cattedra. Nemmeno lo nascondeva. A volte la sua esitazione nell’esporre lo portava addirittura ad inter­rompersi e a ricominciare daccapo la lezione; e proprio per questa sua schiettezza a volte otteneva un silenzio insolito: si creava tra i banchi una sospensione.


Lesse con noi il Pedone. Non ricordo, non so dire come ci spiegò Platone. Ma ci trasmise un senso dell’interrogarsi sul mondo.


Fuori dell’aula quel giovane maestro indulgeva alla pas­seggiata comune, alla confidenza anche sulle vicende del­l’Europa ormai già nel vortice che preparava il conflitto mon­diale. Una volta, in una di quelle passeggiate, non saprei a che riguardo, fece il nome di Lenin.


Lo rividi a Roma, quando già ero nella cospirazione anti­fascista. Così fu anche con Gioacchino Gesmundo  un al­lievo di Giuseppe Lombardo Radice —, mio insegnante di sto­ria e filosofia, stavolta in terzo liceo. Da lui, a Formia, venne già un discorso antifascista aper­to e consapevole. Come testo di filosofia ci diede da studia­re il Breviario di estetica di Croce: ed era già un segnale di disubbidienza. Nelle passeggiate tra i giardini di Formia, poi, ci parlava di critica al fascismo in modo esplicito.


Nelle sue parole non c’era solo la denuncia aperta della cancellazione della libertà: abbozzava una rappresentazione consapevole dello scontro di classe che si dispiegava in Eu­ropa, in. quegli anni. Certo, veniva avanti la sua inclinazione all’anarchismo ostentata anche da una vistosa e un po’ ridi­cola cravatta alla lavallière, che portava solitamente. Di­chiarava la sua critica al regime, e i nomi dei suoi maestri tut­ti allora al bando (a cominciare da De Ruggiero).


Mi rincontrai con Gesmundo nella lotta del ‘43‘~. Ma pre­sto su di lui scattarono le manette (era anche di una audacia incauta nella cospirazione). Ambedue quei maestri giovani furono assassinati alle Fosse Ardeatine.


Mi sono chiesto, poi, come quella critica del presente fos­se ancora possibile: in quell’inizio degli anni Trenta in cui il fascismo diede una nuova stretta e chiese a tutti di fare atto di fedeltà. . .


Dio sa quanto era violento quel regime, persino goffo nel­la sua prepotenza. Eppure a me non sembra precisa la rap­presentazione che nell’Italia di quegli anni vede solo Musso­lini trionfante. E’ monco il racconto che cancella i nidi, i siti brevi, gli incontri coperti che la militanza antifascista perse­guitata alimentava disperatamente.


E la scuola fu uno spazio, possibile e precario, di testar­de resistenze. In quel contatto così delicato tra docente e alunno si creava a volte un’intimità di discorso, un regno sottile e autorevole della parola.
A un certo punto la porta dell’aula si chiudeva. E il mae­stro dalla cattedra aveva uno spazio di dialogo: lui e gli al­lievi. Di sicuro quello spazio nella scuola fu usato da un an­tifascismo che cercava disperatamente un canale. E inoltre la scuola era tenacemente avvezza  da tempo  alle eresie. Al maestro bastava una frase, un accento in più o in meno per dare senso particolare al discorso.


      A Formia capimmo quasi subito che quei due, Gesmun­do e Albertelli, erano antifascisti. A Roma, più o meno in quegli anni il liceo Visconti fu una scuola da cui sgorgaro­no molti dei quadri che avrebbero alimentato l’antifascismo e la cospirazione comunista romana, e infine la Resi­stenza.



Ci fu poi, per me, un episodio che non c’entra con la scuo­la (o forse, in altro senso, c’entra). Ho fisso nella mente il ri­cordo del giorno in cui mio padre, passeggiando con me per una via di Formia (quasi all’uscita verso Napoli), mi indicò un uomo, basso e un po’ curvo, come raggricciato. E mi dis­se: "Quello è Gramsci" . Non so se è una mia invenzione, o accadde davvero.


 Nel luglio del 1933 presi - questo era il termine in uso al­lora - la licenza liceale, con un gruppo di bei voti: anche in chimica, dove pure avevo fatto quasi scena muta.


Forse mi aiutava una qualità: io ero in forte ansia nei gior­ni di preparazione alla prova. Quando invece mi trovavo di­nanzi all’esaminatore non avevo più scelte. Sparivano i dub­bi, e con essi le apprensioni. Diventavo improvvisamente calmo.


Vennero poi Roma e la facoltà universitaria di Giuri­sprudenza. In verità gli studi giuridici non mi attiravano per nulla. Mi piacevano i versi e la musica. Ma i miei volevano che facessi l’avvocato, o chissà mai il prefetto, come era ca­pitato a un mio zio materno, guardato con solerte rispetto quando fuggevolmente tornava al mio paese natio.


Da Formia al mattino prendevo il treno per Roma ed en­travo nell’anonimato del mondo urbano.


Approdavo di malavoglia in quel cortile barocco della Sa­pienza, a un passo da piazza Navona. Le lezioni mi annoia­vano: tenute in un freddo gergo specialistico, da insegnanti che mi sembravano cento volte più lontani che non al liceo. Finivo quasi sempre per fuggire nella conca marmorea di piaz­za Navona, sperando di afferrare quel segreto di Roma che m’attirava e mi stordiva.


I miei genitori non mi davano soldi per il pranzo (non ce n’erano molti in casa), e quindi ad un’ora correvo a Termi­ni, su quei tram romani che con il loro dondolante sferra­gliare davano spesso fastidio al mio stomaco vuoto. Mi ac­cucciavo con un libro sul treno del ritorno sino a quando riap­pariva all’orizzonte la curva di Gaeta.


 


­ Anche gli avidi amori intessuti d’estate con le ragazze ro­mane sulla spiaggia di Formia avevano occasioni difficili di prolungamento in città, perché non coincidevano ore e per­messi familiari. Ed era una fortuna rara l’incontro ansioso, quasi rabbioso con la fidanzata romana il giorno che c’era modo di prolungare il vagabondaggio fino a quei soffici tra­monti capitolini che sembrava non morissero mai. E tuttavia nella Roma controllata pesantemente dal regi­me (erano i tempi dello staracismo) cominciai a incontrare un cibo intellettuale di frodo. L’Europa e anche la lontanissima America nonostante la rete di sbirri penetravano in quel­la dittatura violenta per varie vie: tutte legate alla incalzan­te rivoluzione dei media, che ormai foravano frontiere e si aprivano varchi.


Il grande secolo, l’Qttocento maestoso e maturo, nel suo morire aveva già portato sul proscenio figure rotte e tramonti di simboli. E questa soggettività perplessa e dissacrante or­mai non incontrava poliziotti che valessero a fermarla. Di­fatti  Hitler ricorse ai roghi. Intanto contava l’espansione enorme della pagina scritta, la sua penetrante presenza quotidiana. I libri ormai finivano nelle mani anche di uno studente squattrinato come me: gi­ravano il mondo con le loro ideologie sottese e i templi del loro fantastico.


Già dall’Ottocento i francesi e i russi erano due poli straordinari, e fecondissime fonti dell’immaginario. C’erano stati per me libri chiave (anche per i nostri padri): da Tolstoj a Dostoevskij, a Flaubert. Stendhal era poi come un autore di frontiera.


Quando varcavo l’università romana già da tempo s’era compiuta nelle mie passioni letterarie una svolta: da Proust ora mi allargavo a Kafka e a Joyce, che dubitavano del sog­getto umano ed esploravano le vie contorte e appassionate del dialogo interiore.


Che mi colpiva così fortemente (e incideva nella Lettu­ra della vita) di quei due scrittori? Il male di Kafka e il mo­nologo interiore dell’irlandese Joyce. Il triestino Svevo ave­va fatto per me quasi da ponte per avvicinare quei due can­tori del nuovo secolo.


 Più tardi mi innamorai di quei versi di Montale: «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». A me piaceva ancora il Pascoli di Myricae, ad altri miei amici il triestino Saba. Nul­la invece mi dicevano i futuristi: troppo futili, troppo «otti­misti» e roboanti nella dissacrazione.


Soprattutto uscivo dalla provincia: con Joyce cominciavo a leggere quello che veniva chiamato il dialogo interiore. L’A­merica profonda venne poco dopo: negli stilemi del cinema, e nei testi che ci giungevano da Frassinelli e da quel mondo torinese, sottilmente discendente da Gobetti. […] Divenni amico di un giovane letterato, Libero De Libero, che scriveva li­riche nei moduli dell’ermetismo, come temperato però da un gusto d’Arcadia. Era un’amicizia difficile, perché De Libe­ro era ombrosissimo. E tuttavia si formò a Fondi, nelle nostre terre, una cer­chia di giovani vicini a quell’intellettuale singolare. Lo rin­contrammo poi a Roma dove ci schiuse l’uscio delle sale e dei caffè in cui si ritrovava, ad ore quasi rituali, la trama varia della intellettualità romana d’avanguardia. De Libero era so­prattutto legato alla cultura francese che da Proust conduce­va a Valéry; e conosceva, bene le esperienze della giovane ar­te romana novecentesca che andava dal grande Scipione a Mafai, alla Raphael, a Cagli: una contessa illuminata, amica dei francesi, la Pecci Blunt, lo aveva chiamato a dirigere una galleria d’arte ai piedi della scalinata del Campidoglio.


Con i giovanissimi amici di Fondi andavo in quelle bre­vi sale della «Cometa» (si chiamava fantasiosamente così). Scrutavo quadri di cui non capivo gran che, e tuttavia ali­mentavano quelle domande sul sé che avevo cominciato a incontrare nei testi della letteratura europea della crisi.
C’e­ra ormai una circolazione di opere che foravano la fitta trama poliziesca delle dittature e facevano arrivare immagini e testi eretici anche a un giovanotto di provincia quale io ero."






     
     
     
 

[ dal libro VOLEVO LA LUNA, Pietro Ingrao, Einaudi, 2006  ]


 
     
     
     

 


   

 


 


































































     
     
     
 

    Durante la lettura del libro di Pietro Ingrao, ho apprezzato particolarmente la parte dedicata alla sua formazione che viene tratteggiata nelle pagine che riporto. E' stato un altro passaggio molto piacevole e illuminante del libro.


 
     
 

Mi piace potermi confrontare con le note scritte da questo "ragazzo d'altri tempi" che aprono uno squarcio sulla sua formazione culturale, permettendoci di intuire un poco del panorama umano e intellettuale del tempo.
Quanto son vere quelle "attrazioni" descritte anche qui e che tutti abbiamo vissuto durante gli anni delle scuole superiori..
E come mi riconosco in questa "sete", in questa "fame", in quell'istinto a frugare ogni angolo, ogni pubblicazione, ogni libro, per scovare una sorta di alimento per la propria anima curiosa d'ogni cosa!

     In questi tempi davvero duri per la cultura e la formazione, mi pare giusto ricordare anche "GLI INSEGNANTI".


Quegli  "insegnanti" che allora, negli Anni Trenta, riuscirono a proteggere e ad accendere la fiamma dell'antifascismo in tanti giovani. Quegli stessi "insegnanti" che oggi sono al centro delle polemiche per il caos in cui è precipitata la scuola Italiana nell'ultimo decennio (e non è certo solo colpa loro).


    Vorrei rendere un omaggio a tutti quelli che, anche in questi nostri tempi così confusi, operano ogni giorno con umiltà e un profondo impegno personale contro il graduale smantellamento perfino del modello stesso di scuola pubblica! 

Mi pare di intravedere nel loro lavoro una nuova "Resistenza" ed anche la prova di quell'antifascismo che da sempre si oppone all'ignoranza e al sonno delle coscienze .


 
     
 

          [ k ]


 
     
     
     
     

Commenti

  1. Ciao! sono passata al volo, non ho letto molto, cercavo Osho.. Hai un blog molto particolare, sicuramente riflessivo.. Se ti va passa da me! Complimenti, io amo i delfini!!! Ciao!

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  2. Sì. E' bello ripercorrere i passi dell'evolvere, sentendoci -a distanza di tempo- compagni di strada...

    Volevo anche continuare con te il dialogo interessante su Osho...ma ho dovuto ottemperare ad altre squallide quotidianità :(
    Però lo faremo... vero?!

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  3. To Leira:

    Esco oggi da un tour de force non indifferente sul lavoro.

    Su Osho ci sarebbero mille cose su cui confrontarsi.

    Ti annuncio che metterò a breve un altro post proprio come proseguimento di quel primo sulla "meditazione".

    Lo faccio a puntate perchè
    la meditazione è un argomento troppo importante per liquidarlo con poche battute.

    Non si diceva
    "I Care"un tempo?

    io lo dico anche ora riferito alla Meditazione!

    Ciaoooo Leira! Un bacio.

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