CRONACA DI UNA FORMAZIONE |
"Mia nonna Marianna stava male, sempre più gravata dagli anni, e mio padre voleva almeno avvicinarsi a Lenola per poter accorrere in caso di bisogno. Perciò da Santa Maria chiese il trasferimento al comune di Formia, che era a breve distanza dal paese natio. Di quella città ho come una memoria doppia: incanto e accidia. Feci il mio ingresso al liceo, che si intitolava a Vitruvio, ed era alloggiato al piano di sopra dell’edificio in cui aveva trovato abitazione mio padre. Era una condizione felice per i miei lunghi sonni. Bastavano pochi secondi per traversare la breve scala e trovarmi in classe. E però quella prossimità rendeva più difficile fare sega. Al Vitruvio c’era un preside zelante, conosceva mio padre, e se scopriva la mia assenza la delazione alla mia famiglia era questione di un attimo. In un certo senso le ore di scuola finivano abbastanza presto. Dopo l’aula, trascinavamo i pomeriggi a gironzolare tra gli agrumeti densi che portavano a Scauri: sempre a parlare di ragazze o di pallone, o abbandonati alle canzoni grasse da bordello (ce n’era uno a un passo, a Gaeta, che fungeva da luogo di iniziazione). Quando avevamo qualche spicciolo, finivamo in un caffè col biliardo o accucciati nel cinema.
Presto però vennero bufere che cancellavano ogni illusione di idillio, e non erano solo i turbamenti della pubertà. Ero mutato nel corpo e vivevo tutti i piaceri e i patimenti della sessualità che esplodeva: dagli sguardi cupidi alla ricerca furiosa dei toccamenti con l’altro sesso. E tutto vissuto senza alcun lume dai maggiori. E i coetanei vivevano la stessa ansia morbosa.[…] Ma altri turbini si agitavano intorno a noi. Non mi pare che in casa fosse nominata con il proprio nome la grande crisi del ‘29, che squassava il mondo. Però le conseguenze sull’esile, vetusta economia agraria dei miei luoghi erano funeste: non tanto sulla rete delle imprese industriali che era gracilissima (in tutta la fascia da Gaeta alle soglie di Napoli, che io ricordi, c’erano solo due fabbriche di qualche consistenza: la vetreria di Gaeta e il pastificio Paone a Formia; poi già più lontano c’era il nucleo industriale della Valle del Liri). Da quelle mie parti la crisi scoppiata nella florida America si ripercuoteva nei modi più elementari. Prima di tutto calava vertiginosamente il ruscello di denaro che veniva dal gruppo di emigranti: e a Lenola vi furono rientri penosi. Soprattutto dilagò la disoccupazione: lo potevo vedere dalla fila di uomini e famiglie disperate che bussavano alla mia casa per invocare ansiosamente un impiego a Roma: fosse un portierato, o un posto da usciere in un ministero, o da portantino in ospedale, o qualunque altra cosa; tutti rivolti a mio padre: non solo in nome di quella garanzia di tutela che correva — non detta fra signori e contadini, ma soprattutto perché mio padre era già nella macchina pubblica, che in quei tempi di aspra, nuova fame appariva un nido di «posti». Mia madre a quelle dolenti domande rispondeva sempre di sì: assicurando che certamente si sarebbe trovata una strada. .[…] Il Vitruvio era chiaramente un liceo di classe. Contadini e operai ne erano naturalmente esclusi: se volevano prendere quella che veniva chiamata «laurea» dovevano andare in seminario e farsi preti. Altrimenti c’erano solo spiragli per la scuola chiamata «tecnica»: come a segnare seccamente un livello parziale e inferiore di sapere. Allora, da quelle mie parti, la tecnica non era ancora salita sul trono: il mondo delle macchine moderne, in Italia, per molti versi era ancora circoscritto.
Non so dire se ero consapevole di quel mio privilegio negli studi. [...] Ciò che apprendevo in quelle aule del Vitruvio era prima di tutto una enorme ricapitolazione o riassunto dell’accaduto umano in quella conca mediterranea in cui stavano Atene e Roma: e tutto ciò che aveva ruotato intorno a quei due fati. Mille e più anni erano quasi impossibili da raccontare. [...] La Divina Commedia era il Libro, l’Icona che si studiava per tutto il liceo, e si saldava con quella lunga ricostruzione del millennio che finiva irragionevolmente con la breccia di Porta Pia, oltre la quale stava solo Carducci, con un enorme e assurdo buco sul Novecento: il secolo drammatico e polimorfo in cui venivamo crescendo. Le materie scientifiche — almeno in quel liceo formiano —non avevano connotato fondativo: salvo la matematica che però era presentata come specialismo, mai come sapere costituente. E difatti io che di matematica sapevo quasi nulla o più esattamente non afferravo il senso, la sostanza dell’operazione umana che in essa si realizzava ero tuttavia, e facilmente il primo della classe. La questione più aspra era nel fatto che quei saperi restavano «materie»: anche nell’agire dell’insegnante. Difatti quei maestri tenevano lezione rigidamente (e naturalmente...) l’uno separato dall’altro. Mai tenevano una lezione comune; quasi mai si incontravano per discutere e delucidare — insieme con gli alunni — un punto chiave della riflessione educativa. O anche per vagliare o prospettare insieme, e con gli alunni, una controversia interpretativa, un progetto di ricerca. Insomma non stimolavano mai un cercare collettivo. Eppure la gara dell’apprendere esercitava su di me una lusinga: con l’astuzia della domanda, ci metteva per qualche momento sul palcoscenico; ci chiamava a sortire da noi, ad assumere la responsabilità di un dire pubblico. Ma questo esigeva un dubitare, e che il maestro avesse lui un dubbio, e anch’egli chiedesse, cercasse una risposta, se mai per verificarla con gli allievi. E in quella scuola quasi mai, o mai, era così. Paradossalmente per me, alla fine le materie più semplici erano quelle che riguardavano le scienze esatte, dove mi sembrava chiaro che i maestri domandavano solo un esercizio mnemonico, é quasi nulla quanto all’indagare, allo scoprire. Da ciò veniva una insoddisfazione che via via mi spingeva a tastare, a frugare fuori dalle aule del Vitruvio. Con desolazione seppi che a Formia non c’era una biblioteca pubblica. Poi, quasi per caso, venne per me la scoperta clamorosa dei media. Prima di tutto, la nuova rete dei giornali quotidiani.
Mio padre spesso comprava il giornale, e mio fratello ed io, a volte, scorrevamo le pagine sportive. Poi mi capitò di scoprire il mucchio di giornali quotidiani posto regolarmente sul bancone di un negozio del corso, dove c’era una commessa bellina e compiacente. E scorrendo quasi di frodo quei fogli incontrai quella che allora veniva chiamata la «terza pagina», e il posto che là aveva il dibattito culturale. Era una pagina dove il regime allentava abbastanza le briglie: anche i letterati fedeli al fascismo là si concedevano qualche licenza nel dibattere; e gli eretici sondavano uno spazio di dialogo: soprattutto allargavano il discorso alle grandi correnti culturali del Novecento europeo. A me più di tutto piaceva la poesia. Appresi a inoltrarmi nelle correnti di pensiero e del gusto che estenuavano il crocianesimo o lo scavalcavano: e mi incuriosiva la rivoluzione avvenuta nella poesia del Novecento: forse colpito dalla rottura nell’incontro delle cadenze e dal dubbio sull’umano che segnavano il passaggio di secolo. A poco a poco imparai a distinguere tra il paludato «Corriere della Sera» e la bizzarra « Gazzetta del Popolo», diretta a Torino da un fascista strano, Ermanno Amicucci: là, ogni giovedì c’era una terza pagina che coglieva il meglio della ricerca letteraria maturata in Italia dopo l’impallidire dei grandi astri, Pascoli e D’Annunzio.[...] Là incontravo Ungaretti e Montale che mi accendevano nella loro amara diversità, Saba che mi piaceva meno, e i lirici di nuova schiera: da Quasimodo (il primo Quasimodo) a Betocchi sino a Sandro Penna. Cardarelli mi sembrava un cauto retore, seppure a Roma teneva ancora banco nella saletta di Aragno.
Fu un inizio. Vidi, più tardi, che alla stazione di Formia giungeva «L’Italia letteraria». Lo compravo puntigliosamente ogni venerdì. Su quel foglio incontravo la costellazione raccolta attorno ad Alfredo Gargiulo, il critico che forzava l’estetica crociana nel culto della «prosa d’arte» e incensava prima di tutto le rattratte cadenze poetiche del primo Ungaretti. Agiva su di me, ormai, un’altra cattedra; e mi parlava del mio secolo, prima di tutto della grande guerra che l’aveva avviato. Incontravo i testi turbati degli ex vociani che erano finiti in trincea: da Jahier con il suo eticismo ai triestini, ai fra- telli Stuparich e a Slataper, e sino -a quel libro ambiguo che allora stava sugli altari, Esame di coscienza di un letterato di Renato Serra che parlava di una crisi piuttosto che di un inizio. Come s’allontanavano la breccia di Porta Pia e Carducci, avanzava per me la letteratura del malessere, che non si combinava al fascismo, anche se stranamente il primo libro di versi di Ungaretti, Il porto sepolto, aveva avuto una prefazione di Benito Mussolini. [...] In ogni modo, tutta una letteratura della crisi di cui i libri posti sul banco di scuola non dicevano parola: il panorama di un esperire frantumato è di dubbio cocente, un mondo che strideva con i gagliardetti delle adunate a cui partecipavo in divisa e le chiassate, le canzoni scurrili, i racconti «sporchi» con cui cercavamo di animare i pomeriggi vuoti e le passeggiate banali per il corso di Formia e il suo giardino pubblico sporgente sul mare. In quel frugare nella letteratura del mio tempo, scoprii anche le riviste esemplari di quel Novecento italiano letterario. Non avevo quattrini, e imparai a farmi mandare copie in omaggio da quegli editori soprattutto fiorentini. I libri mi giungevano fermo posta: se fossero arrivati a casa, mio padre avrebbe chiesto e messo l’occhio in passioni che allora erano solo mie e che sarebbero apparse bizzarre. E io già sembravo un po’ strano: bravissimo a scuola, ma con la testa a volte sulla luna. Quale fu l’anno in cui quell’ignoto (per me) editore torinese, Frassinelli — dietro cui stava tutto il gruppo degli intellettuali antifascisti e liberaldemocratici, da Augusto Monti a Massimo Mila, a Franco Antonicelli, a Leone Ginzburg —, pubblicò il Dedalus che mi avviò a conoscere la nuova lingua di Joyce e Moby Dick di Melville tradotto da Pavese o ancora Il messaggio dell’imperatore, quel primo testo (per me) di Kafka Li comprai a Roma già all’università, o abitavo ancora a Formia? So che Melville e Kafka mi avrebbero incantato e sconvolto.[…] Che cercavo in quei testi allora quasi da iniziati? Che cosa non mi garbava del mio tempo? Ora lo direi così: non mi convinceva una lettura troppo secca e univoca del soggetto umano. E questo non nasceva da una ribellione al fascismo, che invece venne più tardi. Mi sembrava di incontrare, nella società delle mie parti e nella cultura consacrata, semplificazioni sommarie e anche grossolane. Non capivo le sicurezze orgogliose di cui, intorno a me, erano densi anche le passioni e i tribunali della vita quotidiana. Afferravo che alle spalle di quella mia gioventù c’era stata una rivoluzione della cultura europea: un dramma e uno scontro avvenuti prima di me: E avvertivo in qualche modo la grandezza della catastrofe vissuta.
Insegnò al Vitruvio per una breve supplenza un giovane da poco laureato: Pilo Albertelli. Si vedeva platealmente che era nuovo alla cattedra. Nemmeno lo nascondeva. A volte la sua esitazione nell’esporre lo portava addirittura ad interrompersi e a ricominciare daccapo la lezione; e proprio per questa sua schiettezza a volte otteneva un silenzio insolito: si creava tra i banchi una sospensione. Lesse con noi il Pedone. Non ricordo, non so dire come ci spiegò Platone. Ma ci trasmise un senso dell’interrogarsi sul mondo. Fuori dell’aula quel giovane maestro indulgeva alla passeggiata comune, alla confidenza anche sulle vicende dell’Europa ormai già nel vortice che preparava il conflitto mondiale. Una volta, in una di quelle passeggiate, non saprei a che riguardo, fece il nome di Lenin. Lo rividi a Roma, quando già ero nella cospirazione antifascista. Così fu anche con Gioacchino Gesmundo un allievo di Giuseppe Lombardo Radice —, mio insegnante di storia e filosofia, stavolta in terzo liceo. Da lui, a Formia, venne già un discorso antifascista aperto e consapevole. Come testo di filosofia ci diede da studiare il Breviario di estetica di Croce: ed era già un segnale di disubbidienza. Nelle passeggiate tra i giardini di Formia, poi, ci parlava di critica al fascismo in modo esplicito. Nelle sue parole non c’era solo la denuncia aperta della cancellazione della libertà: abbozzava una rappresentazione consapevole dello scontro di classe che si dispiegava in Europa, in. quegli anni. Certo, veniva avanti la sua inclinazione all’anarchismo ostentata anche da una vistosa e un po’ ridicola cravatta alla lavallière, che portava solitamente. Dichiarava la sua critica al regime, e i nomi dei suoi maestri tutti allora al bando (a cominciare da De Ruggiero). Mi rincontrai con Gesmundo nella lotta del ‘43‘~. Ma presto su di lui scattarono le manette (era anche di una audacia incauta nella cospirazione). Ambedue quei maestri giovani furono assassinati alle Fosse Ardeatine. Mi sono chiesto, poi, come quella critica del presente fosse ancora possibile: in quell’inizio degli anni Trenta in cui il fascismo diede una nuova stretta e chiese a tutti di fare atto di fedeltà. . . Dio sa quanto era violento quel regime, persino goffo nella sua prepotenza. Eppure a me non sembra precisa la rappresentazione che nell’Italia di quegli anni vede solo Mussolini trionfante. E’ monco il racconto che cancella i nidi, i siti brevi, gli incontri coperti che la militanza antifascista perseguitata alimentava disperatamente. E la scuola fu uno spazio, possibile e precario, di testarde resistenze. In quel contatto così delicato tra docente e alunno si creava a volte un’intimità di discorso, un regno sottile e autorevole della parola. A Formia capimmo quasi subito che quei due, Gesmundo e Albertelli, erano antifascisti. A Roma, più o meno in quegli anni il liceo Visconti fu una scuola da cui sgorgarono molti dei quadri che avrebbero alimentato l’antifascismo e la cospirazione comunista romana, e infine la Resistenza. Ci fu poi, per me, un episodio che non c’entra con la scuola (o forse, in altro senso, c’entra). Ho fisso nella mente il ricordo del giorno in cui mio padre, passeggiando con me per una via di Formia (quasi all’uscita verso Napoli), mi indicò un uomo, basso e un po’ curvo, come raggricciato. E mi disse: "Quello è Gramsci" . Non so se è una mia invenzione, o accadde davvero. Nel luglio del 1933 presi - questo era il termine in uso allora - la licenza liceale, con un gruppo di bei voti: anche in chimica, dove pure avevo fatto quasi scena muta. Forse mi aiutava una qualità: io ero in forte ansia nei giorni di preparazione alla prova. Quando invece mi trovavo dinanzi all’esaminatore non avevo più scelte. Sparivano i dubbi, e con essi le apprensioni. Diventavo improvvisamente calmo. Vennero poi Roma e la facoltà universitaria di Giurisprudenza. In verità gli studi giuridici non mi attiravano per nulla. Mi piacevano i versi e la musica. Ma i miei volevano che facessi l’avvocato, o chissà mai il prefetto, come era capitato a un mio zio materno, guardato con solerte rispetto quando fuggevolmente tornava al mio paese natio. Da Formia al mattino prendevo il treno per Roma ed entravo nell’anonimato del mondo urbano. Approdavo di malavoglia in quel cortile barocco della Sapienza, a un passo da piazza Navona. Le lezioni mi annoiavano: tenute in un freddo gergo specialistico, da insegnanti che mi sembravano cento volte più lontani che non al liceo. Finivo quasi sempre per fuggire nella conca marmorea di piazza Navona, sperando di afferrare quel segreto di Roma che m’attirava e mi stordiva. I miei genitori non mi davano soldi per il pranzo (non ce n’erano molti in casa), e quindi ad un’ora correvo a Termini, su quei tram romani che con il loro dondolante sferragliare davano spesso fastidio al mio stomaco vuoto. Mi accucciavo con un libro sul treno del ritorno sino a quando riappariva all’orizzonte la curva di Gaeta.
Anche gli avidi amori intessuti d’estate con le ragazze romane sulla spiaggia di Formia avevano occasioni difficili di prolungamento in città, perché non coincidevano ore e permessi familiari. Ed era una fortuna rara l’incontro ansioso, quasi rabbioso con la fidanzata romana il giorno che c’era modo di prolungare il vagabondaggio fino a quei soffici tramonti capitolini che sembrava non morissero mai. E tuttavia nella Roma controllata pesantemente dal regime (erano i tempi dello staracismo) cominciai a incontrare un cibo intellettuale di frodo. L’Europa e anche la lontanissima America — nonostante la rete di sbirri penetravano in quella dittatura violenta per varie vie: tutte legate alla incalzante rivoluzione dei media, che ormai foravano frontiere e si aprivano varchi. Il grande secolo, l’Qttocento maestoso e maturo, nel suo morire aveva già portato sul proscenio figure rotte e tramonti di simboli. E questa soggettività perplessa e dissacrante — ormai — non incontrava poliziotti che valessero a fermarla. Difatti Hitler ricorse ai roghi. Intanto contava l’espansione enorme della pagina scritta, la sua penetrante presenza quotidiana. I libri ormai finivano nelle mani anche di uno studente squattrinato come me: giravano il mondo con le loro ideologie sottese e i templi del loro fantastico. Già dall’Ottocento i francesi e i russi erano due poli straordinari, e fecondissime fonti dell’immaginario. C’erano stati per me libri chiave (anche per i nostri padri): da Tolstoj a Dostoevskij, a Flaubert. Stendhal era poi come un autore di frontiera. Quando varcavo l’università romana già da tempo s’era compiuta nelle mie passioni letterarie una svolta: da Proust ora mi allargavo a Kafka e a Joyce, che dubitavano del soggetto umano ed esploravano le vie contorte e appassionate del dialogo interiore. Che mi colpiva così fortemente (e incideva nella Lettura della vita) di quei due scrittori? Il male di Kafka e il monologo interiore dell’irlandese Joyce. Il triestino Svevo aveva fatto per me quasi da ponte per avvicinare quei due cantori del nuovo secolo. Più tardi mi innamorai di quei versi di Montale: «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». A me piaceva ancora il Pascoli di Myricae, ad altri miei amici il triestino Saba. Nulla invece mi dicevano i futuristi: troppo futili, troppo «ottimisti» e roboanti nella dissacrazione. Soprattutto uscivo dalla provincia: con Joyce cominciavo a leggere quello che veniva chiamato il dialogo interiore. L’America profonda venne poco dopo: negli stilemi del cinema, e nei testi che ci giungevano da Frassinelli e da quel mondo torinese, sottilmente discendente da Gobetti. […] Divenni amico di un giovane letterato, Libero De Libero, che scriveva liriche nei moduli dell’ermetismo, come temperato però da un gusto d’Arcadia. Era un’amicizia difficile, perché De Libero era ombrosissimo. E tuttavia si formò a Fondi, nelle nostre terre, una cerchia di giovani vicini a quell’intellettuale singolare. Lo rincontrammo poi a Roma dove ci schiuse l’uscio delle sale e dei caffè in cui si ritrovava, ad ore quasi rituali, la trama varia della intellettualità romana d’avanguardia. De Libero era soprattutto legato alla cultura francese che da Proust conduceva a Valéry; e conosceva, bene le esperienze della giovane arte romana novecentesca che andava dal grande Scipione a Mafai, alla Raphael, a Cagli: una contessa illuminata, amica dei francesi, la Pecci Blunt, lo aveva chiamato a dirigere una galleria d’arte ai piedi della scalinata del Campidoglio. Con i giovanissimi amici di Fondi andavo in quelle brevi sale della «Cometa» (si chiamava fantasiosamente così). Scrutavo quadri di cui non capivo gran che, e tuttavia alimentavano quelle domande sul sé che avevo cominciato a incontrare nei testi della letteratura europea della crisi. | ||
[ dal libro VOLEVO LA LUNA, Pietro Ingrao, Einaudi, 2006 ] | ||
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Durante la lettura del libro di Pietro Ingrao, ho apprezzato particolarmente la parte dedicata alla sua formazione che viene tratteggiata nelle pagine che riporto. E' stato un altro passaggio molto piacevole e illuminante del libro. | ||
Mi piace potermi confrontare con le note scritte da questo "ragazzo d'altri tempi" che aprono uno squarcio sulla sua formazione culturale, permettendoci di intuire un poco del panorama umano e intellettuale del tempo. Quegli "insegnanti" che allora, negli Anni Trenta, riuscirono a proteggere e ad accendere la fiamma dell'antifascismo in tanti giovani. Quegli stessi "insegnanti" che oggi sono al centro delle polemiche per il caos in cui è precipitata la scuola Italiana nell'ultimo decennio (e non è certo solo colpa loro). Vorrei rendere un omaggio a tutti quelli che, anche in questi nostri tempi così confusi, operano ogni giorno con umiltà e un profondo impegno personale contro il graduale smantellamento perfino del modello stesso di scuola pubblica! | ||
[ k ] | ||
Ciao! sono passata al volo, non ho letto molto, cercavo Osho.. Hai un blog molto particolare, sicuramente riflessivo.. Se ti va passa da me! Complimenti, io amo i delfini!!! Ciao!
RispondiEliminaSì. E' bello ripercorrere i passi dell'evolvere, sentendoci -a distanza di tempo- compagni di strada...
RispondiEliminaVolevo anche continuare con te il dialogo interessante su Osho...ma ho dovuto ottemperare ad altre squallide quotidianità :(
Però lo faremo... vero?!
To Leira:
RispondiEliminaEsco oggi da un tour de force non indifferente sul lavoro.
Su Osho ci sarebbero mille cose su cui confrontarsi.
Ti annuncio che metterò a breve un altro post proprio come proseguimento di quel primo sulla "meditazione".
Lo faccio a puntate perchè
la meditazione è un argomento troppo importante per liquidarlo con poche battute.
Non si diceva
"I Care"un tempo?
io lo dico anche ora riferito alla Meditazione!
Ciaoooo Leira! Un bacio.