L'ATTRAZIONE DEL VUOTO

 



 




























































 
     
     
 

Esiste in ogni vita e particolarmente al suo inizio un attimo che decide tutto. Quest’attimo è difficile da ritro­vare; è sepolto sotto il cumulo degli istanti che gli sono scorsi addosso a milioni e il cui vuoto atterrisce. Que­st’attimo non è sempre un lampo. Può durare lo spazio di tutta l’infanzia o della giovinezza e colorare d’una parti­colare iridescenza gli anni apparentemente più banali.

   La rivelazione di una creatura può essere graduale. Certi bambini sono così sprofondati in se stessi che l’alba sem­bra non levarsi mai su di loro, e ci si sorprende di vederli alzarsi come Lazzaro, scrollando il loro sudario di fasce. E’ quello che m’è accaduto: il mio primo ricordo è un ricordo di confusione, di sogno diffuso che si allunga sugli anni. Non c’è stato bisogno di parlarmi della vanità
del mondo: ne ho sentito, ancora di più, la vacuità.


Non ho conosciuto istante privilegiato a partire da cui il mio essere avrebbe preso un senso, uno di quegli istanti ai quali in seguito avrei riferito ciò che m’era stato rive­lato di me stesso. Ma sin dall’infanzia ho conosciuto diversi stati particolari che non erano, nessuno di essi, premonizioni ma "monizioni".

    In ognuno, mi sembrava (poiché si potrebbe usare un’altra parola) di toccare qual­cosa che stesse fuori dal tempo.

La mia grande impresa avrebbe dovuto essere domandarmi che cosa significas­sero esattamente questi contatti, costruire un legame tra essi, insomma fare come tutti gli uomini che vogliono rendersi conto di quanto accade dentro di loro e confron­tarlo col mondo, trasformare le mie intuizioni in sistema, un sistema abbastanza duttile da non rendere sterili queste intuizioni.

Ma al contrario ho lasciato che questi fiori appassissero uno dopo l’altro. Ho corso dall’uno all’altro
—  in viaggi che non avevano quasi altro scopo.


 
    Quanti anni avevo? Sei o sette, credo. Sdraiato all’om­bra di un tiglio, mentre contemplavo un cielo quasi senza nuvole, ho visto quel cielo vacillare e sprofondare nel vuoto: questa è stata la mia prima impressione del nulla, tanto più viva in quanto veniva dopo un’esistenza ricca e piena.

    In seguito, ho cercato di capire perché l’una potesse succedere all’altra, e, a causa d’un disprezzo comune a tutti coloro che cercano con l’intelligenza, invece di cer­care con il corpo e con l’anima, ho pensato che si trattasse di quel che i filosofi chiamano «il problema del male».

    Ma era ben più profondo e ben più grave. Non avevo dinanzi a me un fallimento, ma una lacuna. Nella vora­gine che s’apriva, tutto, assolutamente tutto, rischiava di
sprofondare.

    Da questa data cominciò per me il rimugi­nio sulla scarsa realtà delle cose. Non dovrei dire «da que­sta data» perché sono convinto che gli eventi della nostra vita
in ogni caso gli eventi interiori non siano che le rivelazioni successive della parte più profonda di noi stessi.
    Quindi le questioni di data poco importano. Ero uno di quegli uomini predestinati a domandarsi perché vivono invece di vivere. Comunque, a vivere piuttosto al margine.


Il carattere illusorio delle cose mi fu ancora confermato dalla vici- nanza e dalla frequentazione assidua del mare. Un mare che aveva un flusso e un riflusso, sempre mobile com’è in Bretagna dove esso mostra in certe baie una distesa che l’occhio fatica ad abbracciare. Che vuoto! Rocce, fango, acqua... Poiché tutto è rimesso in que­stione ogni giorno, niente esiste.

    Immaginavo la notte su una barca. Nessun punto di riferimento.



Perduto, irrime­diabilmente perduto; e non avevo stelle.



    Queste fantasticherie non avevano nulla d’amaro; le coltivavo con compiacimento. E non era un «male lette­rario» poiché non avevo letto niente che vi si riferisse. Era un male innato di cui mi deliziavo.

     Il sentimento dell’in­finito per me non aveva ancora nome, non più di quanto ne avesse quello del nulla. Ne risultava una quasi perfetta indifferenza, una serena apatia
la condizione del sonno da svegli. Percorrevo giorno dopo giorno queste smorte praterie, queste grandi spiagge aride in cui niente mai potrebbe germogliare. Andavo avanti portato da un’onda che, arretrando e avanzando, mi lasciava finalmente sul posto, simile a una boa ancorata a un solido cavo in fondo al mare. E'
molto difficile strapparsi a questo torpore. Non posso dire che mi piacesse; lo subivo, non senza pia­cere. A cosa conduceva? A niente. Qualunque cosa con­duce a qualcosa; quello solo non aveva via d’uscita. Se alla fine c’era la morte, la mia vita le somigliava a tal punto che non avrei visto la differenza, se non per l’istintivo soprassalto d’animale.

    Com’è possibile che con un simile temperamento io non sia stato indifferente a tutto?


 E invece tutto mi feriva perché tutto quello che acca­deva fuori di me tendeva a farmi sentire il suo scarso valore di fronte alla sola cosa che contava per me.

     La mia prima analisi è incompleta: avevo un ideale. E possibile rifiutarsi alle cose che ci circondano e chiudersi in un uni­verso neutro che isoli e protegga: questo significa che ci si ama e che si può essere felici attraverso una forma di egoismo.

    Ma se ci si mette sullo stesso piano di qualsiasi altra cosa, e si sente la vacuità del mondo, si è assoluta­mente disposti a provare disgusto delle mille piccole avversità della vita. Una ferita, ancora passa, se ne trae profitto; ma delle punture di spillo tutti i giorni, sono una cosa insopportabile.


Vista nella sua grandezza, l’esistenza è tragica; da vicino è assurdamente meschina. Ispira l’idea che sia necessario difendersi da essa e fa ripiombare in senti­menti che non avremmo mai voluto conoscere.

     Succede che questo vi sembri preferibile a quello; che sia perfino necessario scegliere tra questo e quello, rinunciare per sem­pre a uno per possedere l’altro.
Ma questo è meglio di quello? Ho un bel dire di no, sono obbligato a dire sì. Non è tormentoso?

Passo mio malgrado dall’istante dell’indif­ferenza a quello della scelta. Mi faccio prendere dal gioco,
cerco in qualcosa d’effimero un assoluto che non c’è; al posto del silenzio e del disdegno, alimento in me un tumulto.

   E' 
ben duro dover scegliere tra due marche di penna: la migliore non è necessariamente la più cara; e la meno buona può essere molto utile perché differente; non c’è più buono e meno buono: c’è quello che è buono in un certo momento, quello che è buono in un altro. La perfe­zione, lo so, non è di questo mondo, ma da che si entra in questo mondo, da che s’accetta di comparirvi, si è tentati dal demone più sottile, quello che vi sussurra all’orec­chio:

visto che vivi, perché non vivere? Perché non otte­nere il meglio?

      Ecco allora le corse, i viaggi... Ma che bei momenti quelli in cui il desiderio è sul punto d’essere appagato.



    Non è strano che l’attrazione del vuoto conduca a una corsa, e che si salti per così dire a piè pari da una cosa all’altra.

   La paura e l’attrazione si mescolano
si avanza e si fugge a un tempo; restare fermi è impossibile.

 
 Tutta­via arriva un giorno in cui questo movimento perpetuo è ricompensato: la contemplazione muta di un paesaggio, basta a serrare le labbra al desiderio. Al vuoto si sostitui­sce immediatamente il pieno.




    Quando rivedo la mia vita passata mi sembra che essa non sia stata altro che un tentativo faticoso di arrivare a questi istanti divini.

     Vi sono stato indotto dal ricordo di quel cielo limpido che, nella mia infanzia, passavo così tanto tempo a guardare attraverso i rami, sdraiato sul dorso, e che un giorno ho visto cancellarsi?



 


     
 

[ Tratto da "ISOLE" di J.GRENIER  Edit.MESOGEA ]


 
     
     
     
     

 



 


 

Commenti

  1. "Visto che vivi, perchè non vivere? Perchè non ottenere il meglio?"

    Quando si dice una bella domanda...
    Eh già...
    "già già"...

    perchè?

    Bella domanda,
    una bella domanda davvero...
    e quell'evidenziatura in rosso se la merita tutta, non c'è che dire!
    Eh si...

    Una bella risposta... una bella risposta è un'altra storia, tutt'altra cosa trovare una bella risposta, una risposta adeguata, che ripaghi la domanda dello sforzo di essere stata posta...

    Non potrei certo essere io a cimentarmi in un'impresa tanto ardita, non ne ho davvero potenzialità ed energie, ma...

    ma forse qualcuno avrebbe una proposta da fare,
    avrebbe da suggerire un qualcosa che si potrebbe dire;
    è un certo "Vittorini" e,
    non ricordo bene dove,
    scrive una cosa così:

    "la nostra paura del peggio,
    è immensamente più grande
    del nostro desiderio del meglio"

    Avrei voluto scriverci qualcosa su questa frase,
    ritrovata tra le pagine di certi quaderni,
    ma poi son passata di qui e l'ho trovata appropriata,
    quella scritta in rosso l'ha chiamata e così te la lascio,
    come monito forse,
    o solo come suggerimento,
    come proposta,
    o come non so... come qualunque cosa possa essere.

    E' per questo, secondo me,
    per un'eccessiva paura del peggio
    e uno scarso ardore nel desiderare il meglio,
    che pur avendo tanta vita per le mani da poter spendere,
    spesso finiamo per non sfruttarla pienamente,
    la lasciamo scivolare tra le dita,
    perchè il vento la soffi via,
    via lontano,
    ci auguriamo,
    così che noi non si abbia poi troppi rimpianti
    nel vedere tutto ciò che abbiamo scelto
    di non vivere.

    Non che per forza quella via scartata
    debba indurre rimpianti,
    le scelte possono anche essere fruttuose,
    forse deviare per un altro sentiero
    è la cosa migliore,
    decisamente migliore,
    per la nostra vita,
    ma su quella via che abbiamo abbandonato,
    in quei granelli di sabbia che abbiamo lasciato soffiar via,
    si annideranno sempre,
    io credo,
    i nostri dubbi più grandi,
    quelli che iniziano con "se io..."
    o con "ma se tu non...",
    "se quel giorno io..."
    e chiassà quanti ancora...

    Forse il "mio" senso ha deviato rotta dal senso del brano,
    non volermene,
    colpa di quella frase in rosso...

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  2. sai cosa mi stupisce di questo brano?che già a 7 anni dice che rimaneva fermo. Io invece a quell'età avrei voluto fare tutto e anche gli anni successivi, forse a 14 anni ho cominciato a cambiare. Insomma..da bambini non si può essere rinunciatari!e non bisognerebbe esserlo nemmeno da grandi, no no...a rischio di prendersi grosse delusioni!!!
    ciau

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  3. Ciao!! si, la vita cerco di viverla ogni momento, cercando il meglio.. solo così mi sento serena.
    un abbraccio Edda

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  4. passavo di qui.

    un bacio.

    le tue scelte letterarie sono di una tale raffinata e sconvolgente pacatezza che...


    non ci sono parole.

    miriam

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  5. Picchè non scrivi più spesso qualcosa di tuo?
    Sei bravo..=(

    RispondiElimina

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