...E tu come vuoi che io ti guardi? Il tuo corpo, i tuoi pen­sieri, la tua lingua, i tuoi sentimenti, i tuoi desideri sono di­versi dai miei.
       Ogni cosa che tu vedi è diversa da quella che io vedo. Ed ogni volta che noi usiamo la stessa lingua, le stesse immagini, gli stessi suoni, credendo che siano i medesimi per te e per me, ci amputiamo, perché erano due, all’o­rigine, le nostre parole e i pensieri, due le figure e i corpi, due i sessi e i desideri. Ritrovarmi in occhi di donna: un do­no.
        Scopro com’è da madre e da figlia, da compagna e ami­ca. Non nasce dalla distanza la conoscenza. Vuole relazioni, la conoscenza. Non è fatta dei tuoi occhi giudicanti la cono­scenza.
      Chi ha paura del corpo gravido? Rientro nell’utero attraverso vagine, stanze, cunicoli e m’insedio nel ventre di mia madre. Sono incinta: accanto alla figlia che porto in grembo, genero il desiderio di vederci chiaro: guardare mia figlia e ad essere guardata da lei.
      Altri desideri questo em­brione mette in moto: desiderio di presenza, desiderio di corpo, desiderio di voce, desiderio di diritti, desiderio di li­bertà, desiderio di cittadinanza. Come sono gli sguardi che si scambiano una madre e una figlia? Sono sguardi di com­plicità, dissenso, crescita, sguardi di nostalgia, rimpianto, consapevolezza?
 Non nasce dalla separatezza la vita. Cerco spazi di rela­zione, dove mettere in comune parole, gesti, corpi. Spazi dove sia possibile scambiarsi sguardi e pensieri, luoghi do­ve restare, andare, tornare, luoghi come tane e piazze, luo­ghi della differenza e dell’incontro.
       Non sopporto la solitu­dine dei luoghi separati: casa contro città, pubblico contro privato. E' resistenza: dal mio non luogo, dal mio non cor­po, dalla mia non parola.
  Non sopporto l’infelicità di pro­nunziare parole ostili, vuote, parole incapaci di esprimere il mio senso delle cose, parole che creano tonfi, parole che precipitano e mi rendono invisibile.
  Racconto, per ritrova­re la mia lingua, il mio corpo. Parlo in prima persona, per riportare alla luce la mia parola seppellita. Racconto ciò che vedo.
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       Racconto per rimettermi al centro: di cosa? Del­la vita, della mia vita. Racconto per restituire un nuovo senso all’abitare, per trovare il mio sguardo nelle strade, la mia parola nelle piazze. Quando abito le parole che pro­nunzio, sono dentro una lingua piena di significati, ricordi, emozioni, una lingua colma di storie, che mi rispetta e ri­specchia, non mi tradisce, non mi svuota di senso, non mi offende, non mi reca beffa.
 Per molti anni ho scritto rivolgendomi a me stessa, per specchiarmi nelle parole e riflettere sui fatti, trovare un bandolo nella matassa dei fili da cui mi sentivo stretta: scri­vere per non morire, come guardarsi allo specchio, guar­darsi e rompere lo specchio per il disturbo di non piacersi; guardarsi e strappare quei fogli o custodirli, relegandoli nel fondo di un cassetto e preservandoli dalla vista altrui, come la propria faccia.
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 Il desiderio di guardare oltre lo specchio, il desiderio di trovare sguardi d’intesa, di ricucire i tanti volti, è stata la tappa successiva. Come sono stati i passaggi dalle parole al corpo, non potrei dire. Chi mi incontrava in quei tempi, non poteva fare a meno di notare le differenze, cambiavo, cambiava la forma del viso, la posa dei capelli, l’andatura, il tono della voce, il luccicare degli occhi.

     Quanti motivi possono indurci a scrivere?
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È l’ignoto che abbiamo dentro: scrivere vuol dire raggiunger­lo. E' questo o niente. La scrittura è l’ignoto... Non è neppure una riflessione, scrivere, è una facoltà che si ha al di fuori di noi, parallelamente a noi, di un altro che appare e si fa avanti, invisibile, dotato di pensiero, d’ira, e che talvolta, per questo stesso motivo, è in pericolo di rimetterci la vita" (Duras, 1991, pp. 43-44).
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  Posso dire, io, perché scrivo? Scrivo per ritrovare i tanti pezzi della mia vita, per rattoppare il mio corpo scucito, perché la voce non sia senza parola e la parola senza gesto e il gesto senza sguardo e lo sguardo senza carezza.
      Scrivo come amo. Scrivo e il mio corpo cambia, scrivo e per ogni parola che scrivo c’è un pezzo di carne che si toglie e uno che si aggiunge, mi guardo e non mi riconosco.
                [ tratto da " Fotografia come terapia" -  A. D'ELIA ]

Commenti

  1. Quando scrivi lo fai a raffica...Suggestive le immagini con la nebbia "Con la nebbia le apparenze tor­navano ad essere apparenze e se nessuno era più certo di nulla, tutto poteva diventare certo.", bellissimo questo pensiero, esprime bene le sensazioni che mi da la nebbia, questa dissolvenza che accarezza ogni cosa.
    Ciao Carlo, buon pomeriggio.

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  2. Quel brano della Duras è splendido.
    Rende bene il concetto.
    Un piacere leggerlo e leggerti.
    Ciao.
    bess

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  3. Molto interessante anche questo post, caro Carlo, che vive sempre in cima ad una vetta acuta o seghettata con ali aperte pronte al volo...
    Buona serata
    Chiara

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  4. Come sempre i tuoi scritti riescono a toccare quella parte profonda di me... con la delicatezza delle emozioni più vere...
    Buona giornata mio emozionantissimo Amico....
    Aicha

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