fotografie
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Vorrei dedicare questo brano [ tratto da un libro, che mi sta prendendo molto in questi giorni], a MISTI, a BLUE, ad ALIANTE, ad OTTOBRENOTTE, a GIANLUISA, a CHIARABELLA, ad AICHA, a CAROLYN, a EMER e più in generale, a tutte le persone che s’interessano di FOTOGRAFIA.
_ Tutte quelle persone che fotografano per passione, per una specie di impulso interiore insopprimibile, e quelle che, per lavoro o per semplice hobby o divertimento, si confrontano con l'affascinante mondo delle immagini. |
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" Le odierne tecnologie video rendono possibile la ripresa in tempo reale sempre e dovunque, il visibile non rappresenta più la vita, è
E’ una svolta epocale densa di molte conseguenze: le cattive immagini navigano insieme alle buone; fino a poco tempo fa, il vedere non essendo soggetto a opinioni, garantiva una veridicità maggiore di quella del pensare, oggi sia l’uno che l’altro possono essere fallaci. Dietro una telecamera, che riprende a ciclo continuo, non esiste più alcun occhio che sceglie, nessuna storia da narrare. Dalle macchine senza visione hanno origine gli sguardi vuoti che incrociamo sempre più spesso.
Al bivio di questa generazione giungiamo, inoltre, con un fardello di cui liberarci: la scissione corpo/mente. La crisi del pensiero dualistico riabilita lo sguardo, penalizzato da secoli di subordinazione al logos, ma al rischio di essere risucchiati in immagini astratte, si aggiunge il pericolo di uno sguardo disincarnato.
Gli effetti li abbiamo davanti: sguardi troppo veloci, indistinti, giudicanti, ipertrofici, invadenti, alienati, allucinati. Se il corpo non è più punto di riferimento della visione, saltano tutti i limiti: quelli spaziali e temporali, biologici e conoscitivi, si vuole vedere tutto contemporaneamente e nel minor tempo possibile. Il mondo, per poter entrare in un monitor, si miniaturizza, il tempo per poter soddisfare la crescente voracità, si contrae.
Rallentare il tempo della visione, recuperarvi la perduta affettività, rientrare in contatto con lo stupore, ritrovare i limiti del visibile, opporsi alla quantità per la qualità, ricongiungere ogni immagine ad un occhio che guarda, possono essere i primi passi verso un cambiamento.
Oggi, le immagini vivono lo stesso destino delle città, sono sempre più distanti da chi le vive. Sia il vedere che l’abitare dovrebbero, invece, dare risposte al vivere. Ritrovare un senso a ciò che si vede, vuoi dire anche saper distinguere tra buone e cattive immagini, tra quelle che mettono in moto trasformazioni o le bloccano. _
I contenuti e le forme del sapere, i modi dell’apprendere e del percepire sono cambiati vorticosamente da quando le immagini non hanno più bisogno di un supporto fisico, viaggiando nello spazio delle reti. Potenziamento e privazione del sé, sono i due poli al cui interno oscilla la mutata percezione della soggettività. Credere di essere in un luogo mentre lo si sta solamente guardando può dare l’illusione dell’ubiquità, ma ci trasforma in fantasmi telematici. [...] I poteri dell’immagine travalicano la sfera del visivo coinvolgendo l’intero destino dell’umanità perciò il salvataggio si annuncia lento e faticoso.
Cominciamo ad interrogarci su: cosa, come, quando, dove, guardare.
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Rivalutare ciò che è piccolo, impercettibile, che appartiene alla sfera soggettiva, che segna l’essere di ciascuno, il suo genere, la sua storia, il suo volto, la sua persona: il brutto, il vecchio riemergono alla visibiità, dopo lunghe rimozioni e censure; dietro il genere neutro riappaiono un maschile e un femminile e tra l’uno e l’altro, svariati modi di essere uomo e donna. Guardare ciò che non pretende lo sguardo, non vive per attirare gli occhi, ma tutto quanto, mite e silenzioso, accompagna passi e gesti quotidiani. Ricominciare da ciò che pensiamo di vedere ogni giorno, ma che non guardiamo più.
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In che modo mutano il pensare, il sentire, l’immaginare, dal momento in cui le pupille si schiudono a ciò che ci sta intorno? Quante cose cominciamo a vedere di cui non c’eravamo mai accorti? Lo sguardo ubiquitario è l’ultimo inganno di un percorso verso la cecità.
L’astrazione dello sguardo mondializzato è l’anticamera dell’indifferenza e dell’invisibilità. Riprendiamo sulle spalle il peso delle nostre storie, guardiamo dove viviamo, dove abitiamo e con chi, poiché lo sguardo si lega al vissuto. Solo a partire dalla conoscenza di noi e del nostro contesto, possiamo guardare altrove e navigare in rete senza il rischio di perderci.
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Guardare stando in mezzo alle cose, partecipi e non spettatori; guardare, come da una soglia, il dentro e il fuori, il prima e il dopo. Guardare all’alba e al tramonto, di giorno e di notte, col sole e con la pioggia, riabituarsi a considerare
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Guardare più lentamente, con amicizia, con affetto, con tutto il corpo, guardare da uomo e da donna, da bambino e da vecchio, da domiciliato e straniero, guardare in modo partecipe anche quando ci serviamo di una macchina fotografica o di una cinepresa. Guardare e lasciarci guardare. Cambiare per effetto dell’altrui sguardo.
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Mi vengono in mente le “Avventure di un fotografo” di Italo Calvino, quando Antonino Paraggi grida: “Ormai t’ho presa”, subito dopo aver scattato a Bice la fotografia. Bice era nuda e scoppia a piangere.
Non la ama che attraverso quelle immagini. Lui la fotografa minuto per minuto, mai pago, vorrebbe racchiudere in quelle foto tutti i punti del suo corpo e tutti i momenti della sua vita. Ma non gli basta. Vuole altro, poiché anche il vuoto, anche l’assenza parlano di lei. La donna piange. Non per essere stata colta nella sua nudità, non per vergogna.
Piange perché si sente tradita. E’ l’altra che Antonino ama, quella che appare sulla carta, l’altra che non è più lei, poiché lei è viva e l’altra è morta, pietrificata in quella posa di statua vivente. Vuole solo possederla, non conoscerla, non capirla, non assecondarla.
Ma non è possibile avere una persona, la si può trasformare in immagine, renderla cosa, superficie patinata, foglio di carta lucida oppure opaca con su impressa un’immagine, da mettere in cornice, sul tavolo, sul comodino. Lo sguardo possessivo e onnivoro di Antonino non è che il sintomo di tante patologie del guardare di oggi. E le altre?
Tentiamo di sintetizzarle: non guardare affatto, guardare ma non vedere, guardare senza emozionarsi, guardare sapendo già prima quello che si vedrà, guardare senza reciprocità.
Ritornati consapevoli di essere guardati, ci chiederemo: come ci guardano gli altri e noi come vorremmo?
Poter vedere con le mani, desiderio antico di toccare il visibile. Il primo passo è riabituarsi a percepire col corpo, ad interagire con quanto sta attorno. Non esistono sguardi buoni per ogni circostanza, poiché ogni soggetto, oggetto, luogo richiede di essere guardato in modo diverso. La mobilità del reale vuole una molteplicità di rapporti con ciò che diviene. Il guardare odierno è sottoposto alla sfida del rimescolamento tra immagini, della contaminazione tra linguaggi, dalla trasversalità tra contesti. Come leggere una fotografia riprodotta dentro un’altra fotografia o sullo schermo di un computer? Come porsi di fronte ad una foto pubblicitaria che vuole far vendere e ad una che vuol far pensare?
Dalla continuità e dalle interferenze tra scritture, dall’intreccio tra generi e linguaggi, non solo scaturiscono nuove forme espressive, ma le immagini assumono significati diversi. La foto che riproduce l’attimo che scorre su un monitor, ad esempio, può aiutare a fermarne il flusso, ripristinando una facoltà di scelta che era stata interdetta.
Nella perdita odierna di confini spaziali, la foto può definire un percorso fisico, consentire l’osservazione di un territorio restando fermi, contrastare la rapidità con cui tutto cambia, rivelando che nessun luogo esiste in sé, ma solo in relazione a chi lo abita, lo attraversa, lo guarda.
Guardare come la prima o l’ultima volta — suggerisce Luigi Ghirri — dando un senso a ciò che vediamo, mettendo ordine nelle cose, prelevando indizi, labili tracce, luci propizie, accostamenti inusuali, aiutandoci a non dare nulla per scontato.
La fotografia consente di vivere una grande avventura del pensiero e dello sguardo poiché l’occhio può tornare una seconda volta su ciò che ha visto per non dimenticarlo, per capirlo o, forse, solo per la gioia di rivederlo e può farci vedere in modo diverso: collegando il grande e il piccolo, le illusioni e la realtà, il tempo e lo spazio, la consapevolezza adulta e il mondo dell’infanzia. La fotografia, prelievo di spazialità e sospensione di temporalità, consente di fare confronti, ricostruire racconti. Perciò quello che guardiamo in una fotografia acquista una dignità maggiore di quello che scorre davanti troppo velocemente e che spesso non riusciamo neppure a distinguere.
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La messa a fuoco consente una visione più ricca e dilatata la cui durata prosegue anche dopo. Il rapporto diretto con i luoghi, ad esempio, è preceduto dalla conoscenza che se ne fa attraverso libri, mappe, atlanti o l’avventura narrata da altri viaggiatori e riportata in film, fotografie, romanzi. I reportages anticipano o sostituiscono il viaggio, quale reale spostamento fisico. In un caso e nell’altro la dimensione immaginaria accompagna o si sovrappone all’altra. Il viaggiare diventa un rimemorare.
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La fotografia, per la sua stessa essenza di riflesso, ci rende consapevoli del rapporto ambivalente che abbiamo con le nostre rappresentazioni aiutandoci a superare la paura del diverso, dell’altro, della morte, poiché attimo dopo attimo ci familiarizza con una visione del mondo sempre doppia, speculare, ribaltata ci riconcilia con una percezione più complessa, in cui il vero e il falso, il naturale e l’artificiale, il corpo e l’anima, la storia, la natura, la tecnologia convivono.
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Giunti a questo punto, possiamo compiere il passo successivo e raccontare ciò che vediamo, poiché la foto è sempre narrazione ed il racconto lega l’altro a me, a te, ai luoghi e alle cose."
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[ tratto da " Fotografia come terapia" - A. D'ELIA ]
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Onorata dal tuo pensiero che si perde tra i miei...
RispondiEliminaLe tue foto:attimo cristallizzato di emozione pura che mi scivola addosso lasciando una scia indelebile tra le rughe della mia anima... un'emozione che si reitera con il ricordo...
Buona domenica
Aicha
Fotografare è come guardare dentro la propria anima...fermoimmagini di poesia che scrivono il senso del tempo...
RispondiEliminagrazie per questo pensiero
un caro abbraccio
Blue
Di Wanda Wulz (1932 -"Io +gatto").
RispondiEliminaGrazie Carlo per la tua gentilezza. Un'analisi interessante. Molto valido il riferimento al libro di Calvino. Sempre speciale tu.
Bess e io ti ringraziamo.
Mi ci sono ritrovata. Specialmente nel testo evidenziato in blu.
RispondiEliminaTi ringrazio molto del pensiero così gentile di aver pensato anche a me.
Buona domenica
Chiara
Ciao Carlo, tutto a posto, questa volta niente allarmi..
RispondiEliminaBuona domenica.
... potrei dire "guardo dove mi porta il cuore" :-)) spesso quando cammino in cerca d' immagini é come un campanello che suona o una calamita che mi fanno girare la testa e trovare meraviglie ....
RispondiElimina[l' importante é sapere tenere gli occhi aperti e attenti]
Grazie del pensiero ... mi piace far parte di un gruppo così importante di "acchiappaimmagini"
Ciao a tutti
"Dietro una telecamera, che riprende a ciclo continuo, non esiste più alcun occhio che sceglie, nessuna storia da narrare. Dalle macchine senza visione hanno origine gli sguardi vuoti che incrociamo sempre più spesso."
RispondiElimina"Oggi, le immagini vivono lo stesso destino delle città, sono sempre più distanti da chi le vive. Sia il vedere che l’abitare dovrebbero, invece, dare risposte al vivere. Ritrovare un senso a ciò che si vede, vuoi dire anche saper distinguere tra buone e cattive immagini, tra quelle che mettono in moto trasformazioni o le bloccano."
Molto interessante davvero questo discorso sul "vedere", come perduta capacità di stabilire una comunicazione con l'altro, e come necessità e desiderio di riparare la scissione, di recuperare "senso".
Grazie mille di aver pensato anche a me, dilettante assoluta...nel fotografare, sensibilissima nel "vedere"!!!!
Ciao, grazie.