Il tempo disteso della nebbia




Si affacciò alla finestra e non vide nulla.
    Gli sembrò di non vedere nulla, ma fissando nel vuoto, dopo qualche se­condo cominciò a distinguere i contorni sfocati di qualcosa, una casa, forse. Aprendo gli occhi, il giorno dopo che li si è chiusi per sempre, deve essere questo che si vede, pensò.
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C’era nebbia, la giornata si annunziava con questa felice no­tizia, che non era proprio una novità. Nella bassa, la nebbia soccorre spesso gli occhi stanchi. Lo pen­sava da qualche tempo, ogni volta che la visione delle cose intorno gli si offriva avvolta nella matassa di minuscole goc­cioline. Era grato per quella pausa ai suoi occhi. E non era solo perché con la nebbia si godeva un giorno di vacanza.
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     Non era solo per questo che amava la nebbia.
Ciò che più lo rendeva felice era la complicità di quell’elemento. La nebbia aveva compassione degli uomini e calava quando meno se l’aspettavano, d’inverno e d’estate, di notte e di giorno, per acquietare gli occhi stanchi. Con la nebbia le apparenze tor­navano ad essere apparenze e se nessuno era più certo di nulla, tutto poteva diventare certo. La nebbia lo disinnesca­va dalle false visioni, per questo le era grato, ma anche per­ché lo faceva sentire parte di una comunità di uomini ritro­vati.

     L’uno si rivolgeva all’altro per chiedergli: “cosa vedi?”_
Potersi di nuovo interrogare su ciò che si vede!
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Erano anni che il fotografo si aggirava tra un luogo e l’altro con quella domanda negli occhi ed ora, erano in tanti a porsela e a tutti era concesso di non credere a ciò che vede­vano.
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Uno ad uno ritrovavano il coraggio di guardare, guardarsi intorno, cercare, cercarsi e dove non arrivavano gli occhi, arrivavano le mani ed era un toccarsi di braccia, di fianchi, di facce. Nessuno era più sicuro di nulla, nessu­no dettava leggi agli altri, nessuno osava mettersi in prima fila.  Non c’erano comandanti nell’esercito dei non vedenti che la nebbia aveva partorito. Di quante colpe erano colpe­voli gli uomini che vedevano troppo?

Il nome di luoghi reali, così irreale su foto di paesaggi neb­biosi, ne smascherava la presunzione. La nebbia sconsacrava i falsi testimoni e li invitava a documentare la forma delle nu­vole, il colore del cielo, il profilo di un’ombra sul muro.

La gioia della ritrovata vaghezza fece di quella giornata un giorno felice. La nebbia restituiva il piacere di guardare, affacciati alla finestra, ciò che prima si era costretti a guar­dare ribaltando la pupilla.
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Era chiaro anche agli altri, final­mente, che il mondo visto non è lo stesso del mondo fotografato. La luce diffusa aveva reso possibile ciò che in pieno sole è impossibile: ottenere due foto uguali da scatti successivi.

 Nessuna ripresa può mai essere come un’altra, lo sapeva bene, ma ora che il mistero gli veniva smentito in modo co­sì plateale, capì che ogni foto non è che pura fantascienza.
                [ tratto da " Fotografia come terapia" -  A. D'ELIA ]





  

Commenti

  1. Eppure sembrerebbero parole tue...
    Foto molto suggestive e che ti "aspirano", nel senso che ti fanno entrare "dentro". Molto raffinato anche il colore del testo sul fondo: il tutto ricorda la nebbia.
    Complimenti e grazie per la bellezza che doni a chi guarda i tuoi post.
    Chiara

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  2. @chiarabella:

    Che dirti?
    Pochi notano i dettagli.
    Pochi sanno prestare davvero attenzione...
    Perchè in fin dei conti, tutti siamo vittime di una diseducazione dello sguardo, nella presunzione che il nostro modo di guardare sia ininfluente ai fini del risultato del nostro percepire.
    E tu sei fra i pochi/[poche] che sa che non è così. :-)

    Quanto alle parole sorrido...
    perchè è proprio il pensiero che ho fatto io, leggendole. E' bello scoprire che qualcuno scrive [ o ha già scritto] ciò che tu pensi o senti da tempo. :-)

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  3. Arrivata in fondo mi sono resa conto che avevo notato le stesse cose notate da Chiara.
    Mi fa piacere condividere con te e con lei questo bel post così completo e raffinato in ogni dettaglio.
    Ti ringrazio anch'io e ti auguro una bella serata.
    Gianluisa

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