CIRCE [ 3° ]


 



 

 



 






 






















































































































































 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

          La Dea tesse e canta. Ai fili e all'opera delle sue dita, aggiunge il suono, la vibrazione, il suo respiro. Il Dio della genesi, con il suo Verbo, crea il mondo, un suono che si fa parola, ma il Verbo è una qualità autonoma di Dio, che da lui si allontana, e Dio si mantiene ad una ragionevole distanza dalla sua creazione. La Dea, al contrario, accompagna il suo canto con l'opera delle sue dita, intrecciando materialmente i fili del mondo. Ella, dunque, entra nel mondo, divenendo mondo lei stessa. Come un'antica divinità, ella crea non solo con il suono della sua voce, che è pneuma, soffio, spirito, sostanza eterea e sottile; ma anche con l'opera delle sue mani che plasmano lo spirito e lo rendono tangibile nel mondo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           Il suo canto, non appena fuoriesce dalla sua bocca, sembra addensarsi, divenendo il filo lucente con cui la Dea tesse la tela dell'universo. Come il ragno, dalla cui bocca fuoriesce il trasparente filo che diverrà tela, così dalla bocca di Circe fuoriesce il luminoso filo per divenire il canto ammaliante con cui la Dea imprime all'universo un ritmo di suoni, con pause e cadenze precise.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


       La Dea respira ed il suo alito divino permea il  mondo ed il mondo diviene canto, ritmo ordinato e ciclico. La creazione della Dea nasce, dunque, da un respiro ed è in quel respiro che il cosmo trova, allora, la sua modulazione, come una cadenza equilibrata tra il dentro ed il fuori. La sua opera è dunque una creazione ordinata ed armoniosa, fatta di pause, di silenzi e di vibrazioni, di passività e di ascolto, di attività e di emissione. Il mondo magico, di cui la maga è l'artefice, non è, dunque, un mondo disorganizzato, casuale o privo di connessioni. Al contrario, molteplici sono le connessioni e non si prestano all'interpretazione di semplicistiche e riduttive leggi, provenienti da un logos scisso, ormai, dal divino.
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     La Dea canta ed incanta il mondo, gli uomini, le piante e gli animali. Il suo canto è quello della ripetizione di suoni e parole, la cantilena ossessiva e rassicurante che ci invita all'abbandono, facendoci dimenticare tutto, come il canto della madre che induce al sonno o come il canto della transe, che ci apre il varco verso altre dimensioni ed altre realtà. Ma addormentarsi, come pure abbandonarsi, vuol dire perdere coscienza, affidarsi, lasciare che qualcuno si prenda cura di noi, avere, cioè, il coraggio di rischiare la propria identità e, forse perfino un po' morire. Per accettare un tale rischio occorre essere davvero forti e sicuri, ma Ulisse non lo è. Ulisse non è un uomo forte, egli è un uomo astuto; la  sua ricchezza è la mente scaltra con cui cerca a tutti i costi di preservarsi, di non coinvolgersi, nella speranza di riportare a casa la pelle sana e salva. Per questo le Sirene divengono un pericolo mortale e lui ne ascolta il canto, legato all'albero della nave, impedendo a se stesso di seguirle e di lasciarsene coinvolgere.
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      Il canto della Dea, come molti altri canti, comporta per Ulisse un pericolo mortale perché rappresenta la vibrazione invisibile che può agire sulla materia, trasformandola fino al punto di costringere gli uomini a mostrare la loro più autentica natura.
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     Questa era la potenza che Giordano Bruno attribuiva, infatti, al canto di Circe. Il canto, come emissione di pneuma, di spirito, diviene potenza modulata, contatto invisibile che trasforma. Nel cantare, come nel parlare, infatti, l'aria, e con essa il mondo fuori di noi, vengono introiettati e, dentro di noi, come in un alambicco alchemico vengono trasformati per essere poi riemessi attraverso il suono. E se a far ciò è una Dea, allora, il suono sarà ancora più potente e, quindi, più pericoloso per l'uomo.
 
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      Nel racconto di Omero, Circe indica ad Ulisse la strada verso il mondo infero. Si può, dunque, ritenere, con buona ragione, che ella sia così strettamente collegata al mondo sotterraneo, tanto da poterne conoscere bene la strada. Ella ricorda la Dea minoica che, oltre ad essere Signora delle piante e degli animali, era anche la dominatrice dei mari e, proprio in questa veste, regnava sull'isola verso cui il defunto intraprendeva il suo ultimo viaggio. Sono proprio queste sue connessioni con il regno dei morti a mettere in risalto le sue caratteristiche ctonie ed a qualificarla come una divinità sotterranea, vicina alla terra ed al mondo umano. Come Grande Madre, infatti, ella si trova in relazione con la terra e con tutto ciò che sta sopra e sotto di essa.
    
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      Ella tuttavia,  rappresenta la madre terra non solo nel suo aspetto benefico di terra feconda ed accogliente, Demetra, ma anche nel suo aspetto più inquietante di Persefone, regina degli Inferi e della morte.
 
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      In quanto forza che fluisce ovunque, ella riflette la vita di tutto l'Universo, ignorando i confini fra i vari stati della natura.  Come "Signora degli animali" o "Signora delle piante", ne assume i molteplici aspetti conservandone, però, sempre l'unità sostanziale.
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      Il mondo divino investe così, con la sua potenza, tutti i piani, compreso quello della nascita e della morte a cui segue, sempre, l'immancabile resurrezione, dalla morte alla rinascita, dall'animale all'uomo. Al di là della dicotomia tra l'Essere e il Divenire, si trova la Dea che li concilia entrambi nelle sue continue metamorfosi, nelle sue molteplici manifestazioni in cui si ritrova la potenza, ancora non congelata, dell'Essere. La Dea resta, infatti, sempre una a rappresentare l'unità nella pluralità.
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      La molteplicità dell'Essere si espande, dunque, da uno stato all'altro, attraverso un processo di metamorfosi continue, già presente nella circolarità delle cose che tornano sempre al punto di partenza. Ella, nella circolarità del suo divenire, rappresenta il concetto "dell'eterno ritorno" come impossibilità della creazione dal nulla e di ritorno al nulla.
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      In quanto Signora della circolarità di tutte le cose, ella domina i passaggi, attua le connessioni tra le varie dimensioni e realtà , di cui ha il dominio, divenendo, dunque, la Dea della magia e della trasformazione, vista come continuo passaggio tra i vari stati dell'Essere, tra i Superi e gli Inferi, tra la vita e la morte, perché non vi sarebbe trasformazione possibile senza il morire. La morte, così, nel suo regno, rappresenta solo la rinuncia ad un vecchio modo di essere, la distruzione della forma in cui eravamo precedentemente racchiusi, la perdita di una identità, che condannava, ormai, all'identico ripetersi di azioni e di esperienze sempre uguali. La rinuncia a tutto ciò, anche se dolorosa, è comunque il presupposto necessario per una nuova vita, per  nuovo individuo.
 
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     Rinnovarsi vuol dire, sempre, accettare anche di morire e, nel regno della Dea, la distruzione diviene necessaria almeno quanto la costruzione, perché ogni cambiamento porta in sé la morte, come elemento necessario per una nuova rinascita.
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     L'ingresso agli inferi ed il contatto con la morte comportano sempre un contagio ed è facile soccombere se la morte ci appare solo come annullamento e distruzione. Ma, se del morire si coglie la metamorfosi radicale e si scorge in quell'evento la rottura di un'identità ormai inutile, allora l'atto del morire e l'ingresso nel regno infero cambiano il loro significato per assumere quello di passaggi necessari alla nostra rinascita. Sciogliendo e annodando i fili delle connessioni più misteriose e diramandole all'infinito, ella compone la sua opera in una tela, in cui si riflette il fluido divenire del mondo
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