La vita di Adèle.


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"Lo stato supremo della bellezza, è la grazia "
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"Esistere significa cambiare, significa maturare, significa continuare a creare se stessi,  incessantemente " 
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    Henry Louis Bergson


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Ci sono film che restano nella memoria e che vanno a comporre la storia del Cinema.
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Il film di cui parlo oggi è “LA VITA DI ADELE” del regista franco-tunisino Abdellatif Kechiche. Il film, nel maggio 2013 ha vinto il Festival di Cannes. La scorsa settimana finalmente la pellicola è uscita anche nelle sale italiane.
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Prima di tutto, occorre sgomberare il campo dall’equivoco in cui sono caduti in tanti. A livello internazionale, il film ha scatenato diverse polemiche e malintesi e non solo e non tanto per le lunghe sequenze di sesso esplicito fra le due protagoniste, ma per aver confuso o male interpretato il senso complessivo della pellicola.
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Il fatto che la storia d’amore che riempie lo schermo, abbia come protagonisti due persone dello stesso sesso, non fa della pellicola, un film di denuncia o di rivendicazione omosessuale. Non si deve cioè cadere nell’errore di pensare che questa opera appartenga al filone gay oppure queer. Niente di più lontano dalla realtà.
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Al contrario, l’opera è straordinariamente universale.
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Il tema del film è la grazia umana, l’amore e l’innamoramento (come ha dovuto precisare più volte lo stesso regista) ma, è anche, un inno allo splendore del corpo umano, alla nostra natura animale, carnale. Una pellicola sulla potenza dell’amore come energia vitale tanto che mi è capitato di pensare che, per assurdo, questo film potrebbe essere inviato nello spazio per raccontare agli extraterrestri qualcosa di noi, gli esseri umani, con le nostre qualità, le nostre contraddizioni, la nostra complessità, i nostri alti e bassi, i nostri mille errori, e insieme, la nostra meravigliosa animalità, i nostri umori, la nostra voracità nei confronti della Vita.
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E’ un film sulla “grazia”.
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La grazia della Vita. La grazia del corpo. La grazia del viso umano, la grazia del tutto speciale che appare sul finire dell’adolescenza quando ogni individuo inizia a confrontarsi con la vita senza più filtri o intermediari. Perché c’è una grazia, una bellezza sacra  anche nel dolore e nelle delusioni a cui andiamo incontro, oltre che nella felicità o nella gioia che incontriamo quando cominciamo a vivere veramente. E la grazia che ci arriva dal film è violenta nella sua estrema delicatezza. E’ qualcosa che colpisce in profondità.
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Spesso il Cinema racconta la vita, tenta di imitarla, di riprodurla. Poi ci sono altri e più rari film che si fanno essi stessi Vita, con una incisività, una forza visionaria da colmarci al punto da diventare essi stessi, pezzi della nostra vita. Il lavoro di Kechiche è questo.
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Lo dico subito, il film è bellissimo.
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Un film delicato, appassionato, coinvolgente. Qualunque sia l’identità sessuale e sociale dello spettatore, è impossibile non empatizzare con Adele ed è difficile poi all’uscita dalla proiezione, immaginare un miracolo cinematografico più grande. Perchè Kechiche ci porta talmente dentro la vita della protagonista, che al termine del film nella vicenda di Adele riconosciamo interi spezzoni di noi.
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"La vita di Adèle"  è anche un grande film sulla fisicità umana. Come i telescopi studiano i confini dell’universo, Kechiche indaga con una sorta di determinazione religiosa, i misteri della fisica del corpo, l’energia che può irradiare un volto. Al regista, in questo, è riuscita una doppia impresa : la prima è stata la scelta delle due attrici. Le due protagoniste hanno infatti un volto incredibilmente espressivo, tanto che ogni impercettibile movimento di sopracciglia o di labbra diventa una diversa coloritura dei loro stati d’animo e dell'intensità emotiva che trabocca dallo schermo fino allo spettatore.
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La genialità del regista è evidente nel montaggio e nella scelta delle sequenze, tratte dalla enorme mole di materiale girato (sei mesi di riprese).

La costruzione del film da parte di Kechiche,  somiglia a quella di 
un grande pittore. Egli riesce a sviluppare la storia, attraverso  ogni singola espressione, ogni dettaglio emotivo  che appare sul volto di Adele e di Emma. Si può pensare allora che le espressioni dei visi delle protagoniste, ogni accenno di sorriso, ogni fossetta sulle guance, ogni sguardo, siano in senso lato, i pennelli e i colori nelle mani di Kechiche che li sa usare magistralmente. 
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Il secondo capolavoro riuscito, è la naturalezza che sprigiona da tutta l’opera.
Quasi che il regista riprendesse e rendesse attuale la lezione di Pasolini, per il quale i corpi dei “ragazzi di vita” erano belli in quanto naturali.  Ed in ciò che è naturale non può esistere errore.
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Il regista sceglie un neorealismo moderno, allo stesso tempo delicato e difficilissimo.  Tutto il film è un camminare sul filo della possibile caduta di stile. Invece, incredibilmente il film si regge fino alla fine, perfettamente in equilibrio. Tanto da apparire un miracolo. 
La pellicola ha l’energia della vita vera e  questo potere, questa forza singolare e unica è talmente potente che non si può non gridare al miracolo. Tutta la pellicola parla un linguaggio di realtà, pieno di sensazioni tattili, visive, pieno di profumi e  colori. Più di tre ore di vita che scorre come acqua tra le dita. Ore piene, ricche, sfrontate e liberissime.
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Il moccio al naso, i capelli della protagonista prima raccolti e poi di nuovo sciolti, mentre danza al suono di  “ I follow rivers”, e poi lacrime di piacere, di sincera euforia e profonda tristezza, aloni di salsa sulle labbra affamate, quanto di più carnale, la vita possa offrire. 
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E' la Vita, la dimensione da cui Kechiche ruba a piene mani, incalzando la realtà da vicinissimo, tanto da amplificare la nostra percezione, fino ad una immedesimazione totale. C’è talmente tanta vita vera, nel film che non sembra nemmeno un film. Così che ad un certo punto, le due protagoniste pare di conoscerle da sempre. Pare di averle incontrate durante la nostra stessa adolescenza.

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Il regista si limita a mostrare questa storia nella sua semplicità, per quel che è: un incontro di ragazze. Un incontro di  sguardi  e sorrisi, e sorrisi che traboccano in baci, e baci che si mutano in morsi, carezze, vertigine e poi erotismo gioioso, liberatorio. Con dolcezza Kechiche ci porge un frammento torrenziale di verità esistenziale. Delle due protagoniste, i primi piani ci restituiscono la presa diretta, come lo sbocciare di due fiori  preziosi, fino a scrutarne gli organi interni ed esterni, ma sempre dentro un istintivo pudore impudico, lontano, quindi, da ogni compiacimento pornografico.

Il cibo, le pagine di un libro, una panchina, due volti nella luce di un sole tiepido, in un film che ricorda la percezione del bergsoniano “tempo della vita”, senza trucchi e senza inganni.

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Nella protagonista Adèle, “contorta e pazza” eppure così ordinaria nell’affogare il dolore nel cioccolato, così come nell’apertura della sua bocca carnosa a rivelare i denti sporgenti, si insinua tutto il fascino di un film, che non teme di donarsi e che lo fa senza chiedere nulla in cambio, impudico proprio nella sua generosità assoluta.
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La carne, il sugo della pasta che cola dalle labbra, il miele della vita che brilla. E poi il bagnarsi nei pianti dell’amata, il bere le sue lacrime, e di nuovo lo sguardo esausto dopo l’amore. Il muscolo della mandibola di Adèle che si contrae in una fossetta divertita e accompagna il rossore del suo volto imbarazzato oppure deformato da una sensualità selvaggia, o morbida, a seconda dei momenti. Il debole e meraviglioso mistero dei visi e delle creature umane. Tutto il film è una lente d'ingrandimento puntata su questo mistero._
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E' un film poetico. Dove la Poesia è ancora più potente, perchè non proviene da artifici e trucchi, ma dal realismo del quotidiano.

Cinema-verità, cinema del reale e nello stesso cinema del soprannaturale, cioè di tutto quello che accade nell'inconscio, oltre i semplici gesti, oltre i sentimenti.
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A Kechiche riesce il capolavoro  (che  conferma come l'arte del cinema sia la più completa e totalizzante), realizzando un perfetto equilibrio, tra le immagini, la scenografia e le interpretazioni, che sono poi il cuore  del suo lavoro.
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Impossibile non innamorarsi di ciascuna delle due interpreti. Dalla diciannovenne Adele Exarchopoulos (Adèle), che riempie lo schermo coi suoi occhi incantati, a  Léa Seydoux (Emma), che porta nello sguardo la ricchezza intera di un mondo interiore.
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A livello tecnico il regista sceglie l’uso della handycam e di ogni accorgimento utile per portarci dentro la quotidianità di Adele. Di quì l’uso delle riprese strettissime sui visi e la cura maniacale del dettaglio.
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Lo stile di Kechiche mi ha ricordato anche il cinema dei fratelli Dardenne [ L’enfant – una storia d’amore, 2005,  Il matrimonio di Lorna, 2008,  Il ragazzo con la bicicletta, 2011]
 
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«Me ne andavo con un cuore cui mancava qualcosa, senza sapere cosa fosse» legge una studentessa. «E che cosa vuol dire, che manca qualcosa nel cuore?» incalza il professore.
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Si apre così, il dibattito in classe, nel liceo frequentato da Adéle ed è questa la scena che compare all’inizio della pellicola: una classe di liceali mentre legge in aula “La vie de Marianne”di Marivaux.
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Adele è una ragazza  poco più che adolescente, che attraversa  quella fase in cui, ci si apre al mondo e alla scoperta delle prime relazioni significative. Adele, legge tanto, esce con un compagno, ma non ha chiaro non solo la sua identità sessuale, ma quasi nulla della sua vita. E’ soltanto portatrice sana di infinite domande sull’esistenza e  questo la rende onnivora verso tutto ciò che la circonda.
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Non è un caso che l’inizio della storia prenda avvio dalla ripresa di un banale pranzo a casa di Adele. Già in quell’indugiare sulla bocca di Adele, e sugli spaghetti alla bolognese depositati dal padre, nei piatti, e mangiati così golosamente,  c’è l’anticipazione della voracità per la vita della protagonista, quasi una dichiarazione di quella carnalità che riempirà la pellicola di lì a poco.
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Adele mi è sembrata a tratti (lo confesso) appena uscita dalla canzone “Alba chiara” di Vasco Rossi. Un'adolescente che si veste senza studiare il look, che a scuola ama immergersi nella lettura, che quando cammina ogni tanto si tira su i pantaloni sui fianchi e spesso finisce per accanirsi sui propri capelli.
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La bellezza che emana questa pellicola dipende solo in parte, dal fatto che Adèle ci viene mostrata da Kechiche in tutti i suoi stati: di volta in volta entusiasta, imbronciata, insicura, triste, allegra, disperata.
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La protagonista ha una fisicità incredibile, tanto che è difficile separarsi da lei, e dalla sua presenza scenica. Adele Exarchopoulos, l'attrice che interpreta Adèle è vera, in modo dirompente, e la storia non sarebbe certo la stessa se l’attrice fosse un’altra: la freschezza del viso, dei gesti, il suo essere bella e sensuale ma non troppo, e insieme un po’ bambina, anche qui senza esagerazione, la rendono unica.

Il film però è anche tante altre cose. E' ad esempio, la storia di una formazione personale, quasi un "romanzo di formazione". La cronaca  del progressivo accostamento di Adèle alla Vita e alla passione amorosa, quasi che soltanto per quella via, potesse  entrare in contatto con la  parte autentica di sé.
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L’amore come strumento di conoscenza, quindi. Il punto di partenza è un non-sapere quasi nulla di sé, un caos ontologico vertiginoso. L’adolescenza come una nuvola di domande che man mano si chiarisce e si definisce all’interno delle esperienze in cui si getta Adele, con un misto di curiosità ed appetito esistenziale.
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Ad un punto esclama stizzita: "Ho l'impressione di fare finta, di fare finta su tutto".
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Ciò di cui va in cerca è una esperienza di autenticità, un’autenticità capace di farla avvicinare a ciò che è per davvero.
Una esperienza che la metta in contatto con la propria libertà di persona. E quì non siamo lontani dai territori di Sartre e di Bergson.

"Libertà vuol dire essere fedeli a se stessi.
Noi siamo liberi quando i nostri atti promanano dalla nostra intera personalità, quando la esprimono, quando hanno con essa quella somiglianza indefinibile che si trova talvolta tra l'opera e l'artista
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Il valore aggiunto di questo film sta proprio nello sconfinare ripetutamente, sempre in modo lieve e apparentemente casuale, nei territori della Filosofia e successivamente della Pittura.
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Un giorno, per strada, Adele incrocia una ragazza con i capelli blù e ne rimane turbata. Si chiama Emma e tra loro a partire dal successivo incontro, nasce una tenera, appassionata storia d’amore, narrata con scene di sesso esplicito, eppure incredibilmente casto. Il regista entra nei dettagli della loro vita fisica e ne indaga l’interiorità con sguardo limpido.
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Camminiamo così con Adele che cerca se stessa,  e seguiamo poi l'inizio della passione, i primi dialoghi, il trionfo del sentimento e dell’intesa, il suo realizzarsi in una convivenza, infine il logoramento e la rottura.
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Adele ed Emma sono molto diverse: Adele è candida, carnale, femminile, vuole fare la maestra d’asilo, raggiungere sicurezze, ma la sua cifra è la semplicità. Emma invece ha un lato maschile, è più intellettuale, con un carattere più  deciso, talvolta spigoloso, è uno spirito libero e aspira al successo come pittrice.
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L’incontro delle due ragazze è esplosivo. Divampa come un incendio e travolge ogni limite.
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Tuttavia man mano che il regista ci porta dentro la relazione, emergono differenze non da poco fra le due ragazze: Adele è naturale e spontanea in tutto, un foglio ancora tutto da scrivere. Di un candore abbagliante.
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Emma è più grande ed esperta, più centrata su se stessa e si porta dentro una sorta di pregiudizio che finirà per essere castrante per l’intera storia.
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Emma infatti arriva a rimproverare più volte Adele di non avere altre aspirazioni oltre a quelle di fare la maestra e di lavorare in mezzo ai bambini.
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Emma respira quell’aria fra lo snob e il discriminatorio, di una elite intellettuale che fatica a comprendere come una persona possa sentirsi realizzata semplicemente nel fare bene il proprio mestiere, nel fare l’insegnante e stare in mezzo ai bambini.
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Adele in una scena arriva a dirlo: "...io sto bene così. Mi sento realizzata. Sono felice con te”... ma Emma non riesce a capacitarsene e su questo versante, fra le due ragazze si apre una crepa profonda. Una mancanza di stima, di sintonia,  e un progressivo isolamento emotivo.
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Emma diventa sempre più incapace di comprendere Adele, e le scava attorno un deserto, nonostante tutto l’impegno a mettersi in gioco di Adele che si presta a farle da modella,  a occuparsi della casa,  a cucinare con estrema umiltà per l’intera cerchia degli amici.
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Quì appare la diversa concezione di relazione che distingue le due protagoniste. Adele si mette in gioco completamente, con i suoi errori, con la sua ingenuità, con le sue incertezze, ma anche con una dedizione inarrivabile. Con un cuore aperto e indifeso.
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Emma no.
Emma, gradualmente privilegia l’aspirazione personale, la possibilità di affermazione in una carriera da pittrice e in questo modo condanna Adele ad un isolamento sempre più drammatico.
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La rottura che avviene, formalmente per motivi di gelosia, in realtà è preparata dai silenzi via via più pesanti che si scavano fra le due ragazze.

Alla fine è il pregiudizio di Emma a prevalere. Il suo sentirsi superiore e parte di una elite. Una cerchia di personaggi con vocazioni artistiche che, in realtà, finisce senza saperlo per trasformarsi in un ghetto. Un ghetto di persone chiuse nel proprio inconsapevole snobismo, nelle proprie aspettative, nella ricerca di una affermazione individuale, di una strada per arrivare.

Il regista fin dall’inizio mostra anche  i due differenti ambienti sociali di provenienza delle protagoniste.
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La famiglia proletaria di Adele, sembra in superficie più conservatrice, più chiusa, aspirando a valori di sicurezza e augurandosi un lavoro stabile per la figlia e anche per Emma, mentre la famiglia borghese di Emma è più raffinata, brillante, apparentemente aperta e capace di supportare gli interessi di Emma.

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A questo proposito, in una intervista, il regista ha dichiarato:

“C’era un gran numero di tematiche che mi interessava sviluppare in questo film: l’incontro amoroso, l’importanza del caso, del destino, e soprattutto l’incontro tra due persone che vengono da due classi sociali diverse, una intellettuale borghese e l’altra proletaria, e se l’amore può resistere a queste differenze sociali e in che modo…”.

Un film ricco di temi, di spunti oltre che di una notevole qualità visiva.
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La capacità di fascinazione del film, dipende anche da un altro aspetto che non è immediato cogliere: ci sono due storie d’amore che avvengono sullo schermo.
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L’amore di Adele per Emma, (con tutto ciò che significa in termini di  formazione sentimentale) e l’amore di Hechiche per la sua protagonista. Perché è questo, che traspare: un amore quasi mistico fra il regista ed Adele.  
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Lo stesso amore - mi viene da pensare - che accomunava Fellini a Marcello Mastroianni , Truffaut al Jean Pierre Léaud di "I quattrocento colpi",  Krzysztof  Kieslowski a Juliette Binoche  in “Film Blù “ e si potrebbe continuare con una lunga serie di esempi simili. 
Ciò che vediamo  sullo schermo, è una identificazione talmente profonda che l’attore diventa una sorta di alter-ego del Regista. La sua più sublime emanazione: la sua poetica fatta carne, corpo, volto. 
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Un piccolo capolavoro questo film. Lo consiglio a tutti.
Merita di essere visto, discusso, meditato.
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Buona visione !




P.S. _
Chiedo scusa per la lunghezza del Post
ma il film è davvero pieno di spunti e argomenti.

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Commenti

  1. Bellissima questa recensione; mi incuriosisce ora vedere il film.
    Un saluto,
    giulia

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    Risposte



    1. carlo Klimt02 novembre 2013 23:00

      Grazie delle tue parole, Giulia.
      Scrivere serve anche a questo: CONDIVIDERE... e possibilmente cose belle!
      La cosa impagabile dei blog è proprio questo tipo di "passaparola", indipendente. Soprattutto dalle mode e dall'informazione ufficiale.
      Un caro saluto. Carlo

      Elimina
  2. Grazie per averlo segnalato. Lo vedrò!
    Buona serata.
    Annamaria

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  3. Scopro sempre buona musica sul tuo blog. Complimenti!!

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  4. Ma di Adele parlano bene proprio tutti, eh. Bisognerà che lo veda. Ciao :-)

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